I social network e il web sono ufficialmente luoghi insicuri. La crociata dell’establishment contro il sistema delle cosiddette “fake news” è stata lanciata dal palco della Leopolda 8. Il frontman è Matteo Renzi ma la regia è di un certo Andrea Stroppa, ragazzetto di 23 anni che ha lavorato come capo del reparto ricerca e sviluppo di una società di consulenza, la Cys4, di cui Marco Carrai, fedelissimo del segretario del PD, era socio, supportato dalla piattaforma Buzzfeed. Peccato però che l’inchiesta – firmata a quattro mani da Alberto Nardelli e Craig Silverman – che presumeva svelare l’intreccio tra movimenti nazionalisti e populisti con una rete di siti internet rei di fabbricare e diffondere “fake news” abbia ricondotto – come ha ammesso lo stesso New York Times qualche giorno dopo – a Davide e Giancarlo Colono, proprietari attraverso le loro società con scopo di lucro ma senza alcun collegamento partitico di DirettaNews e iNews24 (con annesse pagine Facebook con milioni di “mi piace” chiuse senza preavviso dallo staff di Zuckerberg!), due quotidiani online che non pretendevano fare libera informazione ma raccogliere clic riportando (e non fabbricando!) notizie e fatti, il più delle volte, con titoli incendiari e strillati. Se ci si pensa bene non c’è nulla di sensazionalistico in tutta questa storia dato che ilclickbaiting – una tecnica per attirare il maggior numero possibile d’internauti per generare rendite pubblicitarie – viene sfruttata da tutti, persino dalle testate “autorevoli”, da Repubblica al Corriere della Sera, da Il Giornale a Libero, dal Fatto Quotidiano a La Stampa. Insomma se la legge fosse uguale per tutti oggi non potremmo più informarci in rete. Ma andiamo avanti.
La produzione di “fake news” è una questione ben più seria che va oltre il flusso statistico e diventa pericolosa quando viene inserita in un’agenda giornalistica in funzione di un’agenda politica (ad esempio l’invenzione delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein per giustificare l’intervento miltiare statunitense in Iraq oppure l’enfatizzazione dell’incremento dello spread per far cadere il governo Berlusconi nel 2011 e far insediare quello tecnico di Mario Monti). In questo caso specifico, a pochi mesi dalle elezioni politiche in Italia e, vista la vittoria di Donald Trump contro il sistema dell’informazione mainstream negli Usa, serviva una capro espiatorio – due siti apartitici con milioni e milioni di utenze – da gettare nella spirale della liquidazione coatta (di “censura” non è corretto parlarne per quanto non ci sia stata la possibilità di replica sui social) per spianare la strada ad una vera e propria strategia che mira ad arginare il dissenso mediatico camuffandola come campagna “angelica” – con il supporto di Facebook – contro le bufale. In Senato sarebbe già pronto un disegno di legge presentato dal Partito Democratico a firma del capogruppo Luigi Zanda e di Rosanna Filippin, per contrastare il fenomeno “della diffusione su internet sui social network di contenuti illeciti e delle fake news”.
Un ddl che sarebbe condivisibile oltre che legittimo se non fosse in realtà un meccanismo sofisticato di auto-celebrazione e di auto-difesa funzionale alla strategia scritta sopra oltre che a scaricare la produzione di notizie false sul web ed evitare furbescamente il mea culpa. Perché diciamocelo questi presunti “nemici della disinformazione” hanno inquinato il dibattito politico-culturale per tutti questi anni con notizie orientate, faziose, manipolate, commissionate, silenziate, copiate e incollate senza nessuna verifica della fonte. Di esempi se ne potrebbero fare all’infinito ma il fact-checking ferisce a targhe alterne, quando fa più comodo, a colpi di algoritmi studiati da nerd rinchiusi nelle università che sul campo non ci sono mai andati perché la realtà, impietosa, cruda, con tutta la sua violenza simbolica, non esiste.
Fonte: L’intellettuale dissidente