In casi consimili c’è sempre il rischio che il lettore voglia andare per le spicce: ti è piaciuto sì o no? Per rispetto a questa tutt’altro che spregevole esigenza ecco il parere per coloro che hanno fretta: The Place è un film da vedere perché costringe a sconfinare dai percorsi più usurati del cinema italiano congegnando una storia e una chiave narrativa avvincenti sia pure non del tutto riuscite. Paolo Genovese, del resto, dopo il meritato exploit internazionale di Perfetti sconosciuti aveva la chance di non doversi riciclare a tutti i costi e da professionista intelligente qual è si è dedicato in coppia con Isabella Aguilar a ricavare una sceneggiatura dalla miniserie tv americana del 2010 The Booth at the End: poco conosciuto da noi il plot di Christopher Kubasik si basa su un’architettura pessimistica e funesta, però venata da tonalità metafisiche e metaforiche che sembravano estranee alle sue propensioni.
Un punto di vantaggio, quindi, per il cinquantunenne regista romano che non ha paura di proporre un’esperienza di non scontato gradimento, considerato che il film procede in bilico su una suspense irrazionale, ipnotica, scabrosa e in ogni caso disturbante: The Place è, infatti, il nome di un bar all’americana (a proposito del quale citare i quadri di Hopper diventa quasi un test d’accesso) dove siede tutto il giorno a un tavolino l’uomo enigmatico interpretato da Mastandrea che riceve uomini e donne di varie età e diversi ceti speranzosi d’ottenere la possibilità di soddisfare i propri impellenti e spesso indecenti desideri.
Un campionario di personaggi che non esitano a mostrare di quanto odio, solitudine, contorsioni mentali e paure estenuanti si nutra la nostra condizione di esseri sociali in The Place: Genovese punta forte, così, sul nugolo d’interpreti (spesso convincenti e credibili come Marchioni, Papaleo, Giallini) i cui patti di volta in volta stipulati col novello Mefistofele ne prevedono il soddisfacimento in cambio di prove non solo scellerate, quanto assurdamente gratuite. L’ambizione è senz’altro temeraria perché non era facile mantenere l’attenzione a colpi di primi piani e fitti dialoghi condannati a un’unica ambientazione, ma forse proprio per questo la regia –una volta azionato il meccanismo del racconto e modulato quello della colonna sonora composta da Maurizio Filardo- tende a ripiegare su se stessa appoggiandosi a un intreccio di situazioni che rendono lo spettatore via via più freddo rispetto alle crudeli vicende a causa della persistenza di una vaga retorica di fondo. Si capisce, certo, che Genovese vuole ipotizzare, in barba al determinismo buonista e ai tic del politicamente corretto, che possiamo sempre usufruire del libero arbitrio e che le “seconde soluzioni”, ancorché più dolorose e impervie, possono risultare ben più nobili di quelle viscerali e perentorie. Ma il ricorrente discorso odierno sull’etica individuale e i limiti più o meno invalicabili da porre agli impulsi primari sembra conformarsi al the end in un gioco di specchi più abile che davvero provocatorio.
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