Tre colori: Blu è un controverso e premiato film del 1993 diretto da Krzysztof Kieślowski e il primo della trilogia che il regista polacco ha dedicato ai tre colori della bandiera francese ed al motto della Rivoluzione francese: Liberté, Égalité, Fraternité! Un film robusto nei connotati estetici e nei contenuti, diretto con maestria e forza evocatrice commista a vibrante malinconia e a sprazzi di speranza e apertura tutt’altro che ingenua a valori universali, o meglio, che dovrebbero avere statuto d’esistenza in ogni latitudine della vicenda umana (il finire del secolo scorso qui testimonia, nello spirito del regista, di una fiducia nel progetto europeista sinceramente laica e fondata sull’eguaglianza e l’equità sociale, sulla libertà e la cittadinanza di diritti non disegnati da confini, che oggi a conti fatti può sembrare velleitaria e aurorale rispetto a quanto sarebbe seguito).
Libertà sta a Blue. Un blu drammatico e innervato di una tristezza dolente ma non desolata, sideralmente distante dalla asciuttezza formale del Decalogo, dalle contraddizioni e dagli aspetti controversi, sdruccioli e non semplicemente evenemenziali, inerenti la cogenza e possibile attualità dei comandamenti biblici.
Un film, questo, purgato da qualsivoglia connotazione politica e squisitamente dedicato alla dimensione individuale ed esistenziale sul piano di un’esperienza intima che non vuole assurgere a paradigma di alcunché, ma narrare un amore per la vita declinato in piccole o grandi azioni che riscattino dall’apparente insensatezza del dolore, dalla lingua astrusa del caso – che solo raramente si può comprendere e ricomprendere in un proprio disegno assertivo di sé e di libertà della scelta.
Blu: trama del film
Julie, una tragica ed ineffabile Juliette Binoche, perde nel medesimo incidente suo marito Patrice, compositore affermato, e la figlia Anna. In seguito a questa feroce tragedia, la donna stabilisce di traslocare a Parigi per intraprendere una nuova vita, avvolta nell’invisibilità dell’anonimato, affatto indipendente ed affrancata da chicchessia, intenzionata ad abbandonare tutto quanto (anche l’agiatezza) possa essere impronta della sua passata vita, con l’intento di ormare sé e nessun altro che sé in una sorta di sinfonia di libertà.
La vita crea un trauma: irreparabile. E la protagonista lo affronta come se le sue prime, istintive decisioni fossero dettate da una sorta di stato di shock e quindi eziologicamente corrive, estreme e imprevedibili.
Ma qui subentra ancora l’imprevedibile da ascriversi alla partitura del caso.
Quando una giornalista comincia a sospettare che sia Julie l’autrice delle musiche del marito, questa demolisce categoricamente questa congettura, negando tassativamente di essere coinvolta nelle composizioni ascritte a Patrice, e in seguito si sbarazza di quella che crede essere l’unica copia degli spariti dell’ultima di esse (il Concerto per l’Europa) rimasta incompiuta; ma Olivier (Benoît Régent), giovane assistente di Patrice, innamorato di Julie da lungo, silenzioso tempo, ne riceve per vie traverse un’ulteriore copia e intende terminarla lui stesso.
Nel frattempo, Julie si ritrova obbligata a misurarsi con il suo passato e con gli ostacoli che insidiano la sua libertà.
Cos’è mai la libertà?
Jean-Luc Nancy così si esprimeva:
“Il motto Libertà, uguaglianza, fraternità ha per noi qualcosa di ridicolo ed è difficile introdurlo nel discorso filosofico. Perché in Francia è un motto ufficiale (una menzogna di Stato) e perché è la sintesi, così si dice, di un ‘rousseauvismo’ ormai inutilizzabile”.
La libertà secondo Kieślowski
Tuttavia, vi è un’uguaglianza che non può essere minimamente inficiata dal nostro essere nel mondo, quella della libertà: non un’Idea astratta, ma fatto concreto e nevralgico di un soggetto autonomo. Anche nell’aspirare allo sconfinamento in zone franche dell’esistenza entro le quali non si belligera con essa, ma al contempo sembrano non vigere le regole consolidate e per orientarsi si deve scegliere e volere la via di un firmamento di valori che la reinventino, la ridefiniscano – anche drasticamente. Libertà anche di disconoscere sé stessi quando e soprattutto qualcosa di mortifero ci è dentro e pervade ogni nostra fibra.
L’Io rischia nella bolgia dell’Etica (o di un compromesso costante con le regole di una normalità che sono altrettante ferite inciprignite incapaci persino di versare sangue visibile) di non realizzarsi mai nel corso di un’esistenza.
L’io della protagonista è invece un Io demiurgo. Soggetto autonomo, libero di tentare il suicidio come di sventarlo in un gesto di estremo riscatto di vita (capace di scollinare oltre la disperazione più cieca) e non figlio del semplice istinto primario; o libertà di sgombrare la mente dal peso della memoria con il suo carico di sentimenti, oggetti, nomi, circostanze, per salvare di essi solo un canto di vita: e così avviene per la lampada di pietre azzurre, gli abbozzi della composizione di Patrice, le melodie al flauto di un suonatore di strada, la catenina con la croce (che diventa il testimone passato di mano al giovane che aveva assistito al drammatico incidente a proscenio di tuta la vicenda), il nascituro dell’amante, la madre malata di Alzheimer. Nel finale di pellicola, il montaggio infatti presiede proprio al ricongiungimento di tutti questi soggetti ed elementi nel segno di una scelta oggi in eclissi nella nostra “matura” società cosiddetta civile: ovvero l’amore per la vita, la scelta che la protegge e salvaguarda, la nutrica di senso e le conferisce una prospettiva altrimenti strozzata da condotte captative e incapaci di farsene carico o gioia.
La Libertà di sprofondare nel Blue, di scegliere come si vuole scegliere e perché così si vuole, è allora ricongiunta a un senso (proprio e distintivo) da calare nell’esistenza e che non si può spiccare già maturo e a portata da un metaforico ramo.Un blu che invade lo schermo sino a confondersi con il nero. Un blu di riverberi fantasmatici del ricordo, che è concreto almeno quanto l’oggetto che ne testimonia, ma assume la consistenza fragile e diafana di qualcosa che non si stringe più ma colora ancora attimi di vita.
“Adesso so che farò una sola cosa: niente. Non voglio più né proprietà né ricordi, amici, amori o legami: sono tutte trappole”, afferma Julie.
Taciturna Julie con compagne fedelissime: le note del pentagramma. A cui si aggiunge la prostituta che la protagonista non vuole “punire”, rifiutandosi di firmare una petizione dei condomini che la vogliono cacciare. Qui, nel genio del regista sarà la voce del caso a parlare o una citazione, preconscia se non volontaria, dall’Inquilino del terzo piano di Polanski? Fatto sta che si stringe fra le due una sorta di sorellanza e Julie, persona solida e generosa ma ferita dal lutto, sembra provare per lei una sottile tenerezza, un atteggiamento protettivo e fedele all’idea che la libertà non sia solo un possesso ma un criterio da esercitare coerentemente in ogni atto della vita.
La Musica è prepotente protagonista in un film che si anima di silenzi: diegetica ed extradiegetica; rifinita modalità espressiva che scardina ogni sovrastruttura sociale, accademica, politica, culturale o economica. Kieślowski racconta che
“il film è stato girato come una illustrazione della musica […] la musica era pronta prima delle riprese. Tutte le scene con la colonna sonora sono state girate con il playback sul set, nella registrazione definitiva.”
Sette note fatidiche per una disperata, universale riflessione sul tentativo di un’umanità afflitta e dolente di smarcarsi da sé stessa per essere autenticamente sé stessa.
È questo un agito pratico e etico possibile?
Jaspers vede nel sempre illusorio e deluso tentativo dell’uomo di conquistarsi la libertà quello che egli chiama “lo scacco dell’esistenza”:
“La libertà non è dunque un mezzo per l’esistenza, ma coincide con l’esistenza stessa: Io non posso farmi da capo e scegliere tra l’essere me stesso e il non essere me stesso, come se la libertà fosse davanti a me solo come uno strumento. Ma in quanto scelgo sono, se non sono non scelgo”.
Anzi, per Sartre la libertà è il segno dell’assurdità della vita dell’uomo “condannato a essere libero”: le cose già sono (sono realizzate), mentre l’uomo è condannato a inventare sempre sé stesso, a inventarsi, tra l’altro, senza punti di riferimento. L’uomo non può negare il condizionamento della naturalità della sua esistenza, e questo lo condanna a non poter mai riferirsi a un valore trascendente ed assoluto.
L’unica libertà che possediamo è, quindi, quella di essere obbligati ad essere liberi?
In verità, il regista sembra suggerire che la libertà è un “obbligo” ma verso se stessi: si risponde di sé in primo luogo alla propria persona, e se questo avviene, sorge anche il miracolo di un gioco delle possibilità che non ricade nel fondale indistinto di una vita anodina e incapace di gesti elargivi di un potente “sì” alla vita. Scrivere lo spartito della propria esistenza dà voce alla più significativa delle sinfonie, quella di una libertà non rintuzzata, ma nutrita e voluta in nome di un canto alla vita. Julie ricomincia a scriverne una che è simbolica e no.