Pane, nutrimento, accoglienza, Terra, Uomo, sono queste le parole chiave della ricerca artistica di Matteo Lucca, nato a Forlì nel 1980 e laureato all’Accademia di Belle Arti di Bologna. La sua ricerca, che mira a stabilire un dialogo tra Uomo e Terra, si esprime attraverso diversi materiali, ma negli ultimi anni l’artista si è concentrato sull’uso del pane, realizzando sculture e installazioni per diversi contesti tra i quali: 2016 l’installazione “uomini di pane” nel Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi; 2017 presso Isorropia Home Gallery, Milano e Magazzeno Art Gallery di Ravenna; 2018 un ciclo di mostre presso i musei diocesani.
L’arte di Matteo Lucca è sacrale e rituale, e in tal senso l’opera finita va letta come una parte della Terra che abitiamo e di cui ci nutriamo: noi siamo pane, nutrimento per gli altri ma anche esseri umani piccolissimi di fronte alla maestosità e potenza della Natura, la cui voce si perde tra le nostre frenesie, ossessioni ed egoismi. Lucca si pone con delicatezza nei confronti della Terra e della sua opera da realizzare, perché sa di trovarsi a casa sua e sa che nella Natura c’è tutta la poesia di cui ha bisogno per sentirsi ispirato.
Le sculture di pane, ceramica, creta e terracotta ci ricordano che la Terra può essere anche un luogo da abbandonare e in cui perdersi, un vaso non perfettamente plasmato per noi umani che ci sentiamo padroni del mondo. Per Matteo Lucca invece la Terra è una casa accogliente da preservare senza lasciarsi troppo trascinare dagli slogan ecologisti e ambientalisti. La sua è un’arte primitiva e ancestrale che trasmette calore, da toccare con mano per riscoprire quanto il pane, anche se mangiato tutti i giorni, non stanca mai perché è sempre nuovo e ci riporta indietro nel tempo, all’origine di ogni cosa, ai primi due chicchi di grano che si sono abbracciati per formare il primo pane, il nostro cibo, la nostra rivelazione di fronte alla quale possiamo scoprirci fragili e impreparati; la cifra dell’essere umano.
Lei realizza corpi umani con il pane. Come è nata quest’idea? Pensa che l’uomo sia così fragile o è solo una trovata artistica?
Il mio lavoro sul pane nasce come un naturale processo di ricerca che sento profondamente legato al mio vissuto personale. La necessità è stata quella rispondere alla domanda: come posso essere nutrimento per l’altro? Questo mi ha portato alla terra, al pane e all’uomo. Per diversi aspetti mi ha condotto verso un’origine simbolica e archetipica legata ai materiali, ai significati, e verso riflessioni sull’essere umano e sul corpo. Dal punto di vista pratico ho realizzato un mio calco in terracotta, ho costruito un forno a legna e lì dentro ho iniziato a cucinare le mie figure di pane. Inizialmente volevo fossero cotte bene perché dovevano essere opere da mangiare (e così è stato) ma non è sempre facile riuscire in questo intento in quanto il mio forno, fatto di bidoni, mattoni e lamiere, insieme al fuoco ingestibile, ha reso le cose difficili. Così, fin dalle prime volte ne sono uscite alcune figure troppo cotte. L’incidente si è fatto rivelatore di qualcosa che ha ampliato le prospettive e le riflessioni fin dall’inizio. Il mio approccio in questo lavoro è quello di essere una guida che interviene il minimo indispensabile: la mia funzione è quella di creare le condizioni affinché si inneschi un processo creativo e pormi piuttosto come accompagnatore di quell’evoluzione che è tendenzialmente autonoma. Il pane dentro allo stampo lievita e si cuoce, dove incontra la forma del corpo la calca, dove trova spazio fuoriesce e cresce liberamente seguendo un suo naturale processo di lievitazione. Il fuoco è l’elemento principale che dà vita a tutto questo. Il mio incontro con l’opera corrisponde alla rivelazione di qualcosa di sempre nuovo e sconosciuto, ma che mi è anche familiare e mi pone domande. A volte quell’incontro è profumato, mi porta in casa ed è denso di vita; altre volte mi porta a dover incontrare e accogliere il qualcosa che mi turba. Penso che questo turbamento abbia a che fare con la fragilità. Sì, penso che l’uomo sia fragile ed è una ricchezza immensa. È quando la fragilità si manifesta che la bellezza si svela o trova la via per esprimersi. È in relazione alla fragilità e al senso di finitezza delle cose che cerchiamo di evolvere. Negare la fragilità significherebbe perdere una parte di noi che ci rende capaci di emozionarci e amare. Significherebbe negare una verità che ci rende autentici e umani. Quella fragilità vive nelle mie opere perché parlano di vita. Sta nelle crepe, nelle bruciature e nelle parti chiare, sta nelle parti mancanti e prese a morsi o consumate, nelle parti commestibili e non commestibili. Ritengo di avere grande rispetto per l’arte e l’essere umano, e di aver sempre mosso la mia ricerca artistica per soddisfare qualcosa di profondo. La trovata artistica la lascio ad altri con altri bisogni e con un altro senso etico.
Preferisce lavorare il pane o la ceramica?
Attualmente non so fare una scelta tra i due, li sento entrambi necessari, sia per gli aspetti simbolici sia per il diverso rapporto che stabiliscono con il corpo. Nel pane il corpo è rappresentato ed è veicolo di contenuti. Nel lavoro con il pane, la terracotta è a servizio dell’opera, ma centrale nel processo. Diversamente quando utilizzo l’argilla come media principale, allora la rappresentazione del corpo scompare e diventa centrale l’azione e la relazione diretta del mio corpo sull’argilla. Sento che entrambi i materiali hanno un forte legame tra loro e con me, ma il pane non potrebbe esserci senza la terra.
In un certo senso lei cuoce l’essere umano nei forni. Cosa non le piace dell’Uomo?
È tutt’altro che così. Se si perde di vista il simbolo perdiamo il senso di ciò che realmente accade e si rischia di interpretare male. Nel forno non si cuoce l’essere umano ma vi prende vita. Il forno è simbolicamente inteso come ventre materno dentro il quale si genera la vita. Tutto il processo di panificazione è legato al tema della maternità e del femminile, tanto che anticamente in certe società solo le donne potevano fare il pane perché solo loro hanno confidenza col dare la vita e con l’atto di nutrire. Nonostante le mie opere risultino spesso scomode o inquietanti, tutto il mio lavoro parte dalla vita ed è inevitabile che, ricercando una verità, si presenti nel lavoro che faccio anche la morte perché entrambe parte della stessa cosa.
Qual è il valore sociale della sua arte?
Il valore sta nel tentativo di essere il più onesto e autentico possibile in ciò che faccio, l’arte non è che lo specchio di questo. Cercare di essere veri con sé stessi e di conseguenza con la propria arte è già un valore importante che si consegna alla società.
Cosa significa per lei offrire il proprio corpo come nutrimento per gli altri, quando per molti il corpo è solo un accessorio da portare in giro, da spettacolarizzare, da mercificare?
Per me è una direzione non facile, ma che guida le mie scelte. Essere nutrimento significa esserci per l’altro. Ciò mi mette spesso in contrasto tra il mio tentativo di voler riuscire nell’intento e il non riuscire perché in conflitto con i miei limiti e demoni. La differenza la fa il: “nonostante tutto esserci”. Una riflessione che a volte ho fatto sul mio lavoro è stata proprio questa: le mie sculture, nonostante le loro parti non commestibili, le loro spaccature e spesso il loro aspetto poco invitante, sono fatte di pane e la loro condizione di esistenza è quella di essere cibo. Esserci, nonostante tutto come nutrimento. Questo aspetto mi fa pensare molto alle relazioni e a come costantemente ci inducono a fare i conti con noi stessi. Quando il corpo diventa accessorio, spettacolarizzazione e merce perdono il valore di quell’esserci e di vivere quell’incontro. Forse anche questo è una risposta alla fragilità. A volte però è una scelta inevitabile o qualcosa di imposto, allora si apre un altro capitolo di riflessione.
Come ha vissuto e sta vivendo l’emergenza Covid-19? Come pensa debba riorganizzarsi anche il sistema arte?
Come per tutti non è stato semplice vivere quel periodo. Non rientro nella categoria degli artisti che hanno avuto bisogno di produrre. Piuttosto è stato per me un momento per fare spazio e raccogliere. Ritengo che da questo punto di vista sia stato utile per me riuscire a fare questo, ci sono stati anche momenti belli e ricchi di intuizioni. Riguardo il sistema dell’arte non saprei come si dovrebbe riorganizzare. In questo momento si vive il tentativo di rimanere aggrappati “al come è sempre stato” e al timore di muovere passi verso qualcosa di nuovo che rappresenta l’incognita e la paura di fallire. Sicuramente si dovranno riconsiderare i valori di base su cui si poggia la cultura e muoversi in funzione di quelli. Chi avrà il coraggio di fare scelte di senso e contenuti sarà ripagato in futuro, almeno, è ciò che auguro.
Quale mostra le ha dato maggiori soddisfazioni?
Premesso che ogni mostra è per me una grande soddisfazione, forse la prima in classifica è quella che ha segnato l’inizio della mia stagione del pane. È stata nel 2016 nel cuore delle Foreste Casentinesi in un altopiano del parco chiamato San Paolo in Alpe. In quell’area avevo collocato 12 opere immerse nella natura. L’unico modo per arrivare era percorrere per mezz’ora un sentiero in mezzo al bosco per poi trovarsi in quello scenario nel quale si trovano ruderi di vecchie abitazioni contadine e di una chiesa. Era molto forte la relazione tra le mie figure, i ruderi ed il paesaggio. Senza parlare dell’odore del pane di quando si stava sotto vento. A quel primo evento ne sono seguiti altri, fra cui la prima mostra fatta con Isorropia Homegallery che ha rappresentato un altro momento decisivo della mia crescita.
Progetti in cantiere?
Per ora due mostre in Cina, per le quali spedirò a breve le opere, e un progetto teatrale nel quale sarà in scena un mio lavoro.
Si sente per certi versi un artista ambientalista?
Mi piacerebbe, ed esserlo di più. Diciamo che rappresenta un obiettivo e che ancora non mi sento di definirmi tale. Ma se osservo alcuni aspetti del mio lavoro nei materiali e nei contenuti allora posso essere tra gli ambientalisti. Non in una maniera diretta come potrebbe fare un attivista, ma in un modo in cui la riflessione che faccio sull’uomo va in una direzione naturale in cerca di un’autenticità della vita.