Nonostante le statistiche e i numeri forniti da alcune associazioni di editori che riportano una crescita complessiva delle vendite, il mercato del libro sta soffrendo un crollo epocale che non riguarda soltanto il calo dei lettori, ma la crisi dell’oggetto-libro in quanto media, che oggi deve competere con videogiochi, televisione, film, Facebook, Instagram, Wikipedia, Netflix, siti di informazione gratuiti e una sterminata serie di altre realtà. Non è un caso se in questi ultimi tempi assistiamo alla decimazione delle nostre librerie.
Insieme alle librerie di catena (nell’ultimo anno due Feltrinelli hanno chiuso i battenti nella Capitale), ogni anno chiudono centinaia di librerie storiche, come è il caso della Libreria del Viaggiatore in via del Pellegrino a Roma, o quello ancora più recente della torinese Paravia, che aprì per la prima volta la saracinesca nel 1802.
Questa emorragia viene però annualmente offuscata sia dai risultati di affluenza di pubblico ai grandi eventi fieristici inerenti al libro, che dai dati di crescita (+ 2% del fatturato nel 2019, sic!) riportati dall’AIE (Associazione Italiana Editori), senza contare però che c’è un calo esponenziale dei lettori forti e che ogni nuovo nato è un consumatore digitale e non di carta stampata. Ma a chi possiamo imputare la colpa di questa crisi, che ha portato le librerie a perdere nell’arco di un decennio il 10% delle vendite del mercato, passando dal 79% nel 2007 al 69% nel 2018?
Da un lato c’è chi dà la colpa alla “gente che non legge più”, quindi a quello che i più colti chiamano analfabetismo di ritorno, un problema legato ad una crisi di cittadinanza, al fallimento del nostro sistema culturale ed educativo. C’è chi invece dà la colpa ad Amazon, ai prezzi troppo competitivi che si può permettere questa piattaforma (eliminando di fatto l’intermediario librario dalla filiera) e ai vantaggi fiscali che il suo sterminato potere gli concede di fronte alle pressioni, anch’esse deboli, dei governi. Chi dà la colpa ai distributori, che si mangiano fette enormi dei proventi sul libro. E c’è chi, in definitiva, dà la colpa ai librai stessi, incapaci di gestire la libreria come si farebbe con una qualsiasi altra impresa. Qualcuno invece dovrebbe dare la colpa agli editori, che invocano la crisi permanente elencando i motivi sopracitati ma senza mai soffermarsi sul problema ontologico che riguarda la loro stessa professione.
A cosa serve, oggi, un editore? Oggi che esiste il selfpublishing, e che ognuno può pubblicare i propri contenuti online, oggi che il lettore è diventato un prosumer, un creatore di contenuti, prima che un suo fruitore? Oggi che ci sono più scrittori che lettori? Oggi che il 90% dei libri immessi sul mercato editoriale vende meno di 100 copie? Se questo “dannato” prodotto libro non si vende più, perché obsoleto, costoso, di scarsa qualità, perché non competitivo rispetto ad altri media, o per qualsiasi altro valido motivo, la colpa è anche, e in misura maggiore, dell’editore, il produttore stesso di quel bene che sul mercato trova sempre meno posto.
Non è forse l’offerta editoriale italiana a essere in crisi? Sicuramente questo mercato soffre di una crisi di sovraccumulazione. In Italia, rispetto alle percentuali di lettori (solo il 60% della popolazione legge almeno un libro all’anno), si pubblicano troppi libri. E pochissimi superano le centinaia di copie vendute.
Questa discrepanza genera un turnover incessante nelle librerie, che ogni settimana vengono stravolte dall’immensa mole di novità che immediatamente si perde negli scaffali fino a sparire una volta arrivato il carico di novità successive. L’ampiezza sterminata dell’offerta spaventa il cliente che entra in libreria per comprare un libro per scopi ludici, di intrattenimento, oppure a scopi culturali, ed esce più spaesato e scoraggiato di prima.
E se il problema fosse anche la scarsa qualità dell’offerta? Se in questa immensa mole di pubblicazioni gli editori non riuscissero ad intercettare e selezionare qualcosa di veramente valido che susciti un reale interesse sul mercato? A parte i casi isolati di best-seller (citiamo ad esempio la Ferrante) che da soli hanno contribuito a mettere il segno positivo sulle vendite di libri degli ultimi anni, questo gioco a ribasso dell’editoria, che insegue il trend di impoverimento culturale della popolazione, non è forse un cane che si morde la coda?
Gli editori, oggi, per competere con le altre piattaforme digitali summenzionate, non cercano strade alternative, ma vanno dietro ai loro nuovi competitor. Non si cerca di incentivare una lettura forte, solitaria, ma una lettura interconnessa, frammentaria e interstiziale, come se il libro fosse un videogioco o una serie TV, questo perché come scritto dal rapporto dell’AIE, i più giovani preferiscono
storie brevi o contraddistinte da trame e personaggi forti e facilmente riconoscibili, ritmi narrativi veloci e l’immagine rispetto alla parola scritta. La dimensione del mercato deve confrontarsi con un altro indicatore: il nostro Paese si colloca all’ultimo posto per il livello di comprensione dei testi.