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Annalina Grasso

Giornalista, social media manager e blogger campana. Laureata in lettere e filologia, master in arte. Amo il cinema, l'arte, la musica, la letteratura, in particolare quella russa, francese e italiana. Collaboro con L'Identità, exlibris e Sharing TV

David di Donatello 2018: cinescudetto a(l) Napoli, dai Manetti Bros all’attore Carpentieri

David Donatello Napoli

Prima che qualcuno sgraffigni il bottino per ridare fiato alla retorica delle rivoluzioni immaginarie, bisogna ribadire che il predominio dei film di, su e per Napoli ai David appartiene innanzitutto a coloro che ne sono stati gli artefici. Nessuna sregolatezza nel talento dei Manetti Bros, niente anarchia nel lavoro degli animatori della Mad, zero improvvisazione nel curriculum del migliore attore Carpentieri, solo alta tecnica nella fotografia e scenografia di “Napoli velata”. I titoli vincitori hanno saputo, com’è accaduto tante volte in passato, usufruire dell’originaria vocazione della città per poi svilupparla nella varietà e vitalità dei nuovi linguaggi oppure negli spunti suggeriti dai mutamenti vorticosi del costume o quelli incessantemente proposti da una cronaca di volta in volta esaltante o nefasta. Registriamo, così, la conferma di una visione positiva e fattiva, che si ripete da anni erigendo strenue barricate contro i dibattiti autolesionisti, le tirate patriottiche, le risse tra poveri e la fabbrica di luoghi comuni e piccoli cabotaggi folkloristici: un discorso, per di più, che comprende il riconoscimento -tutt’altro che scontato- dell’autonomia dello specifico cinematografico tenuto in vita non solo di exploit ineffabili, magniloquenti ambizioni autoriali o disegni politico-propagandistici tesi ad ammaestrare le platee, ma soprattutto da libertà d’ispirazione, aperture ai migliori gusti del pubblico (il successo delle serie tv riesce a valorizzare proprio le perdute prerogative del cinema popolare) e (ri)nascita dei generi che, dal musical al giallo, dal thriller al fantasy, sembrano tornati a essere le fondamenta più profonde di un medium in crisi epocale.

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‘L’ombra e la grazia’ di Simone Weil: investigazioni spirituali intorno ad una filosofa che appartiene solo a se stessa

grazia

Figura straordinaria e contraddittoria, Simone Weil attraversa come una rapida meteora il firmamento culturale della prima metà del '900. Irrequieta e indipendente, rifiuta schemi ed etichette confezionati da altri e fa della sua breve vita una ricerca tenace, affannosa, disperante ed impronta il suo stile di vita alla partecipazione, all'impegno, alla sperimentazione, alla testimonianza. La troviamo così nelle vesti di insegnante di filosofia, di operaia, in quella di combattente, sia pure per pochi giorni, nella guerra civile spagnola ("per non essere assente"), di animatrice di primo piano nel dibattito politico, spirituale e filosofico del tempo. Quantunque di famiglia ebrea, non si riconosce in quella religione e non accetta di soffrire, perché la ritiene una condizione non scelta da lei. Appartiene all'area politica della sinistra, ma non ne sposa completamente l'ideologia. Né con la Chiesa, né con Marx. Ci viene in mente la figura di Ignazio Silone, cristiano senza chiesa, socialista senza partito.

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‘Annihilation’ di Alex Garland uscito in Italia su Netflix: il primo musical meta-fantascientifico della storia del cinema

Annihilation

«Uno, poi due, poi quattro, poi otto e ancora avanti, fino a plasmare tutta la vita del pianeta, forse dell’Universo. Tutta la vita terrestre è riconducibile a pochi prevedibili numeri?» La progressione geometrica della mitosi cellulare è scandita in apertura di questo Annihilation dalla protagonista, la biologa Lena interpretata da Natalie Portman. La vita per lei si è appena fatta molto complessa: il marito, militare disperso in azione e dato per morto, è tornato a casa insperatamente vivo, ma non parla ed è malatissimo. L’esercito preleva la coppia e la porta al limitare della misteriosa Area X, un’anomalia spazio/temporale (ma non solo) che sta lentamente ingoiando la costa meridionale degli Stati Uniti e nella quale l’uomo era stato impiegato per un’operazione segreta della quale è l’unico sopravvissuto. Assieme ad un team di volontarie, Lena parte all’esplorazione.

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C’est la vie, caro Sarkozy!

sarkozy

«Siamo fatti così, Sarko-no, Sarkozy!». Recita tali parole una canzone demenziale di Simone Cristicchi, apparsa al Festival di Sanremo di nonna Pina (Antonella Clerici) nel 2010. Non trasmette sommariamente una beata ceppa, eppure ci fotografa nettamente la vicenda che nelle ultime ore squassa la Francia: l’ex presidente della Repubblica Libertè, Égalitè et Fraternitè, Nicolas Sarkozy, è in stato di fermo nell’intestino della caserma della Polizia Giudiziaria di Nanterre, mite sobborgo di Parigi. La notizia fa eiaculare i cronisti francesi di «Le Monde», che erano un po’ annoiati negli ultimi tempi a causa della tregua dell’Isis sul territorio bleu. Che cosa vuoi che ne sappiano di scandali politici i cugini francesi? L’Italia rimane il Paese dominante in questo settore, “Mani pulite”, “Cosa Nostra”, e tutte le inchieste con suffisso “opoli”, ci fanno sempre battere il cuore.

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Al via il concorso ‘Elogio alla follia’ ideato dallo scrittore Ivano Mugnaini

follia

Il concorso Elogio alla follia, si ispira al nome dell'Editrice Divinafollia, che pubblicherà in volume gli elaborati vincitori. Se avete nel famoso cassetto (o anche altrove) uno scritto che avete sempre tenuto in disparte, quasi fosse radioattivo, tagliente o ustionante, se non avete mai osato farlo leggere a qualcuno, è il momento di recuperarlo, metterlo dentro un bel file ed inviarlo qui, a questo concorso. Se non lo avete, prendete un foglio e una penna, oppure un computer e una tastiera, e date libero sfogo a ciò che più vi scalda, di amore o di rabbia, di sesso o di cervello, nella carne e nella mente, nella realtà e nell'immaginazione. Cerchiamo testi da selezionare e li vogliamo sopra le righe, o attraverso le righe, asimmetrici, sghembi, di sbieco, insomma testi liberi per spunto, tema e forma espressiva. Ispirati da una sana, umanissima follia creativa. Testi in versi o in prosa in cui la vostra vena ispiratrice è stata debordante, guidata da un'emozione febbrile, sincera e intensa, quella che non di rado consente di vedere oltre: gli stati d'animo, le pulsioni, i desideri, la gioia, la rabbia e mille altre sensazioni vibranti e prive di filtri protettivi. La tematica è libera e verranno accolti scritti di qualsiasi tenore espressivo. Verranno esclusi solamente gli elaborati con contenuti offensivi della dignità delle persone, denigratori o con discriminazioni razziali e sessuali. Per il resto, il campo è libero; e la follia creativa sarà un ingrediente molto ricercato e apprezzato in fase di lettura e selezione.

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Apocalisse e pittura: L’insediamento del Maligno delle Fiandre

apocalisse e pittura

Fine del quindicesimo secolo: mentre in Italia, sotto il segno di Leonardo da Vinci, la pittura è tutt’una profusione di rappresentazioni di annunciazioni, apoteosi e scene sacre idealizzate secondo un’umanistica fiducia nell’uomo e nella forma, nelle Fiandre, invece, s’insinua il Maligno. Hieronymous Bosch e il suo erede artistico Brueghel il Vecchio prendono di certo le mosse da un contesto spazio-culturale e forse anche storico ben diverso, poiché nelle terre della Controriforma si è spiritualmente ancora nel Medioevo, in un tardo Medioevo che negli animi viene vissuto come l’ultimo tempo della storia. Niente prelude ad un Rinascimento, inteso nel senso di un rinnovamento dell’uomo e della fede; tutt’al più si prefigura nelle città anseatiche lo sviluppo di un nuovo modello economico, quello capitalista, che viene avvertito dall’artista come l’ultimo spasmo di un mondo che ormai ha intrapreso la strada della distruzione. Nella Salita al Calvario, le figure intente a beffarsi del dolore di Cristo e a complottare sadicamente fra di loro portano gli abiti dei ceti più potenti dell’epoca di Bosch: oltre a un cavaliere e ad un frate, guardiani dell’ordine tradizionale ormai sprofondati in una completa abiettezza da sottouomini, si possono identificare anche dei mercanti e dei borghesi. Tempo di transizione quindi, ma di transizione verso il peggio, e, probabilmente, dopo che il Nazareno sarà stato definitivamente liquidato, verso il nulla. Diverso il periodo, diversa la crisi, ma identico è il sentimento della fine che si ravvisa nel dipinto I pilastri della società di George Grosz. La prima guerra mondiale si è conclusa e in una Germania sanguinante e indebitata fanno il loro gioco gli untori della revanche nazionale, supportati dalla grande industria. Questa volta le élite che prosperano come un cancro sulla decadenza di tutta la società vengono simboleggiate dal borghese militarista imbevuto di una prussiana smania di conquista, dal giornalista ipocrita che sparge odio, dal politicante nazionalista, dall’ecclesiasta. Dietro di loro, un ufficiale con la spada insanguinata passa tra i palazzi in fiamme. La caricatura portata all’estremo è ciò che in entrambi i quadri contribuisce alla sintesi di realtà e allucinazione, è ciò che crea quel malessere d’un immagine statica dentro la quale circola e alita un vortice nero che sembra indurirla e spaccarla oppure scioglierla.

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La Napoli ispanica di Francisco Elias de Tejada e il significato attuale dell’Europa

Napoli

Settembre 1734, giorno 19. Una soleggiata giornata bacia l’acqua che bagna il golfo di Napoli; nell’aria il vento tipico dell’atmosfera settembrina soffia sui capelli ricci e mori – quasi a testimoniare una presa di coscienza di dove si è – delle donne occupate nelle consuete mansioni familiari, mentre restituisce energie e vitalità ai pescatori assiepati lungo le rive del golfo. I primi raggi colpiscono imperiosi la collina svettante di Pausilypon (Posillipo), il cui nome, in un paesaggio commisto da visioni suggestive e bellezze naturali, ci testimonia l’effettiva tregua dal pericolo che al solo sguardo di un simile panorama, si prova. Nel frattempo, nel centro della città fervono grandi preparativi. Non è un giorno come gli altri e ciò si riflette nei gesti del volgo, nei volti ansimanti delle vecchie, persino nelle parrucche della nobiltà. Non c’è nulla di più interclassista di una giornata come questa; nulla che unisca e racchiuda in un medesimo spirito, anelito i sentimenti e le emozioni di una intera popolazione.

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Aldo Moro e la rappresentazione della storia, dai film che rimandano ad una iconografia stereotipata al romanzo di Vasta che racconta la storia come materia

Aldo Moro

Aldo Moro, scrivono Pasolini e Sciascia, agisce attraverso la lingua: i suoi discorsi involuti, il suo latinorum, sono lo strumento principale per conservare lo status quo. Moro è il simbolo di un potere incomprensibile e in quanto tale le Brigate Rosse, ossessionate dalla retorica del complotto e dei linguaggi da decifrare, lo rapiscono, in omaggio, appunto a un’idea più che a un dato di fatto. La rappresentazione della storia da parte del cinema è spesso fondata su un immaginario autoreferenziale, i film si citano a vicenda, o rimandano a fonti audiovisive di tipo documentario, a fotografie, a dipinti, elementi visibili. Questo succede per ogni periodo storico ma nessun decennio come gli anni Settanta risente di un’iconografia standardizzata che spesso diventa stereotipo, luogo comune, banalità. C’è un evento però, negli anni Settanta, il cui percorso iconografico è stato completamente diverso: questo evento è il caso Moro. E il racconto cinematografico dei 55 giorni, più che alle fonti visive, deve il suo canone narrativo alla letteratura, una letteratura che fino alla pubblicazione del romanzo di Giorgio Vasta, Il tempo materiale, non ha mai osato discostarsi dal solco tracciato da due giganti tanti anni fa. Dal 1978, per essere precisi.

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