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Annalina Grasso

Giornalista, social media manager e blogger campana. Laureata in lettere e filologia, master in arte. Amo il cinema, l'arte, la musica, la letteratura, in particolare quella russa, francese e italiana. Collaboro con L'Identità, exlibris e Sharing TV

Clair Patterson, il geologo che calcolò l’età della Terra, indagò sulle cause delle contaminazione di piombo mettendosi contro le lobbies petrolifere

Patterson-piombo

Clair Patterson fu un uomo di scienza che, grazie all’ intelletto che purtroppo non tutti gli scienziati hanno, si oppose fermamente a queste logiche deleterie. Patterson fu un geologo americano la cui professionalità e la cui etica si rivelarono inattaccabili di fronte a quel sistema capitalista senza remore odierno che prendeva largamente piede già nella seconda metà del secolo scorso. Clair Patterson lavorava al California Institute of Technology e gli venne commissionato un compito importantissimo dal punto di vista biologico, chimico, fisico, matematico, insomma era l’opportunità di lasciare il segno nel mondo scientifico. Nonostante il progresso nel 1948 ancora non era chiara l’età della Terra e il compito di Patterson era proprio quello di determinarne l’età, attraverso i processi di decadimento che riguardano gli atomi in determinati intervalli di tempo. Patterson doveva misurare le minuscole quantità di uranio decaduto e trasformatosi in piombo in rocce antichissime. Fu durante queste ricerche che venne fuori l’amara scoperta di Patterson: il piombo presente nelle rocce terrestri era enormemente superiore a quello che ci si sarebbe aspettato. Un margine di errore era prevedibile, ma non certamente di quelle dimensioni, infatti la quantità plumbea risultava ben 200 volte sopra la misura che si prevedeva. Immaginando che le rocce fossero state contaminate da qualche fattore esterno Patterson costruì un laboratorio completamente sterile, ma i risultati ancora non cambiavano. Ripeté quindi il procedimento su meteoriti che non presentavano questa contaminazione ma che si sapeva dovessero avere circa la stessa età del nostro pianeta. Patterson raggiunse quindi questo grande traguardo scientifico: era riuscito a calcolare l’età della Terra che ammonta a 4,5 miliardi di anni.

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Riflessioni sull’utilità dell’invenzione storica: contemplare il passato per riflettere sul futuro tra ucronia e utopia

ucronia

Cosa sarebbe successo se i Patti Lateranensi non fossero stati sottoscritti? E se la morte prematura di Benito Mussolini avesse portato alla guida del governo un Dino Grandi? E se invece fosse toccato a Galeazzo Ciano, ambizioso genero del Duce? E se quest’ultimo avesse dato avvio a una politica filo-americana, magari sposando una Rockefeller, pilotando il Paese verso un’economica liberal-capitalista? E se Filippo Tommaso Marinetti avesse scritto un fantasioso romanzo storico, consegnato direttamente al Duce, influenzando la sua politica? Nell’epoca in cui la nostra attenzione è incatenata all’attimo presente, osserviamo incoscienti le inebrianti fluttuazioni cui sono soggette le storie e gli eventi, a volte in modo del tutto fittizio ed irreale, nel tentativo – quasi sempre riuscito – di confondere lo spettatore ed impedirgli di maturare una propria, salda convinzione. E se iniziassimo ad inventare le narrazioni che più desideriamo, a scapito dei fatti genuini, stanchi del circo mediatico – facendoci beffe di giornali, TV e del sistema scolastico?

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L’Accademia mondiale della poesia per la giornale mondiale della poesia 2018 presenta ‘Siamo fatti per l’infinito’, primo concorso di poesia con immagine

giornata mondiale della poesia

In occasione di Infinito 200, il bicentenario de L’infinito di Giacomo Leopardi, una delle liriche più suggestive del poeta di Recanati, l’Accademia Mondiale della Poesia promuove il primo concorso nazionale di Poesia con Immagine, che ha come tema "Siamo fatti per l'Infinito". Il concorso vuole celebrare e porre al centro dell'attenzione la celebre lirica di Leopardi, una poesia considerata unanimemente un "bene comune": un bene immateriale, che ha mosso milioni di miliardi di pensieri, emozioni, inquietudini, visioni, pensieri filosofici, energia esistenziale e che ha reso l'uomo più libero e vicino all'immortalità!

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Apologia del remake, un gioco tra il piacere nel vedere il già visto e la sorpresa delle novità rispetto all’originale

remake

Se c’è un modo per scontentare gli spettatori e i critici prima ancora della visione di un film, alimentandone per paradosso l’euforia, è quello di proporgli un remake, colpevole di riesumare una pellicola che merita l’eterno riposo e il ricordo costante degli appassionati. D’altra parte sembrerebbe la pratica cinematografica che più delle altre (parodia, adattamento, trasposizione, sequel, prequel…) riesca con facilità a sublimare da una parte il carattere capitalista dell’industria culturale e dall’altra a sopperire alla carenza creativa rispetto a una domanda in costante crescita. Pensiamoci un attimo: riprendere un soggetto di successo e ripresentarlo sullo stesso medium a distanza di anni assicura sulla carta un ritorno economico piuttosto certo, da unire al già citato minimo sforzo creativo e dunque al conseguente calo dei costi di produzione. Non a caso Hollywood ne realizza a volontà da sempre, assegnandoli o a onesti mestieranti o a grandi firme del cinema che accettano saltuariamente lavori su commissione, infarcendoli poi dei divi del momento inseriti nel contesto aggiornato in cui il remake viene prodotto. Tanto vantaggiosa dal punto di vista produttivo quanto in genere mortificata dagli addetti ai lavori, tale operazione sembra però attirare il pubblico per mezzo di alcuni assi nella manica altrimenti difficili da coniugare, nostalgia del vecchio e curiosità per le variazioni in primis.

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Carl Schmitt, filosofo politico e giurista imprescindibile, perennemente attuale

Schmitt

Nonostante le note vicende sulla totale o parziale compromissione di Schmitt col regime nazista i suoi volumi sono sempre oggetto di approfondimento da parte delle università, anche americane dove, come racconta Andrea Mossa ne Il nemico ritrovato. Carl Schmitt e gli Stati Uniti (Accademia University Press, p.295), fecero per esempio carriera tanti ebrei tedeschi costretti all’esilio ma che con il suo pensiero e le opere avevano contratto consistenti debiti teorici. Impossibile quindi non confrontarsi, qualunque fosse il campo d’azione, filosofico, giuridico o politologico, con uno studioso che ha influenzato di molto la riflessione anche oltreoceano, sebbene le accademie di ogni ordine e grado scoraggino pur solo a menzionarne il nome.

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‘Diario di un dolore’ di C. S. Lewis: la sofferenza per la perdita della persona amata e l’incomunicabilità verso ciò che è in noi

Lewis

Le prime pagine di Diario di un dolore, sembrano quasi rievocare, accentuandone l’intensità lirica, gli ultimi versi di una poesia della Rossetti: Stripp’d bare of hope and everything, no more to laugh, no more to sing. I sit alone with sorrow. Ecco, I sit alone with sorrow, è l’immagine evocativa dello scritto. C. S. Lewis (autore del celebre fantasy Le cronache di Narnia, Sorpreso dalla gioia, Le due vie del pellegrino, A viso scoperto, I quattro amori, e primo propositore dell'argomento del desiderio come prova dell'esistenza di Dio) dopo la morte della moglie Joy, buttò giù una serie di note sparse, riflessioni e appunti, riordinate un anno dopo, e pubblicate sotto lo pseudonimo di N. W. Clerk, nel 1961.

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‘Sulla felicità’ di Teilhard de Chardin: l’uomo deve incentrarsi su di se, decentrarsi sull’altro e supercentrarsi su qualcuno più grande di lui

de Chardin

Il breve saggio intitolato Sulla felicità del teologo, geologo e paleontologo gesuita francese Pierre Teilhard de Chardin è un testo "ardente" che risale al 1942 e tradotto in italiano per la prima volta nel 1970 in un volume che è difficile trovare in commercio: “Il Gesuita proibito – Vita ed opere di P. Teilhard de Chardin", Giancarlo Vigorelli (a cura di), Il Saggiatore. Secondo de Chardin, la felicità è inserire la propria vita nell'avventura del mondo, nella coniugazione di tre atteggiamenti fondamentali: creatività, amore, adorazione.

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‘Gioventù perduta’, storia tipica del dopoguerra italiano, di Pietro Germi: un inizio travagliato tra scarti della Commissione del GUF di Genova e censura

Gioventù perduta di Germi

Il primo impatto di Pietro Germi con il mondo del cinema è all’insegna dello scontro. Scartato dalla commissione del Guf di Genova, incaricata di effettuare una prima selezione di candidati ammissibili al concorso indetto dal Centro Sperimentale di Cinematografia, Branca Registi, non si dà per vinto e scrive una lunga lettera1 per protestare contro quel risultato a suo avviso sommamente ingiusto. Siamo nel 1937, Germi ha 23 anni e un bellicoso talento per l’esercizio dello sdegno, accompagnato da un’indole ribelle che il tempo potrà solo confermare. A dieci anni esatti da quella bocciatura, al “caso” del candidato Germi si aggiunge il “caso” Gioventù perduta, scatenato da un’altra lettera e destinato a rimanere unico, nella carriera del regista genovese, per il massiccio sostegno trasversale ottenuto anche – soprattutto – a sinistra, nel corso di una vera e propria campagna di stampa contro la censura. Portato a termine nell’autunno del 1947, il secondo lungometraggio di Germi ne è il protagonista indiscusso e forse ottiene il nulla osta, nel gennaio del 1948, anche grazie a questa imponente mobilitazione.

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