Max Blecher ( 1909-1938) ai più forse è uno sconosciuto ma grazie alla casa editrice trentina Keller, che nel 2012 ha pubblicato in traduzione italiana il romanzo Accadimenti nella Realtà Immediata, la lucidità di questo scrittore è nota finalmente anche agli appassionati italiani di letteratura.
Scrittore ebreo-romeno morì a soli ventinove anni per una tubercolosi spinale che lo costrinse a letto, immobile, imprigionato in un corsetto di gesso. Definito il “ Kafka romeno”, nel panorama della letteratura europea del ‘900 si colloca ai vertici con riconoscimenti da parte di autori quali Ionesco, Mihail Sebastian, Heidegger, Gide e Betron con il quale ebbe una corrispondenza epistolare.
Quando guardo per molto tempo un punto fisso sulla parete mi accade a volte di non sapere più né chi sono né dove mi trovo. Avverto allora da lontano l’ assenza della mia identità, quasi fossi divenuto, per un istante, una persona del tutto estranea.
Così inizia Accadimenti nella Realtà Immediata, romanzo espresso in lungo monologo, come un flusso di coscienza con il quale Blecher, in forza della sua costrizione fisica, con il corpo imprigionato e quindi impossibilitato ad una vita piena, con la potenza della mente, della facoltà immaginativa, riesce a ricreare altre vite, liberandosi in tal modo dall’ oppressione fisica, corporea, per identificarsi con gli elementi della natura, per trovare un contatto. Significativo l’ incontro con un albero: “ Silenzioso e splendido. Mi riempii il petto d’ aria e, allungatomi per bene sul dorso, rivolsi un caldo saluto ai rami sopra di me. Vi era qualcosa di semplice e ruvido nell’ albero, che si sposava a meraviglia con le mie nuove forze. Quanto più attentamente guardavo la corona di rami che si stendeva all’ infinito, tanto meglio sentivo dentro di me il modo in cui la carne si dilaniava e come negli spazi lasciati vuoti cominciasse a circolare l’ aria viva di fuori. Il sangue saliva nelle vene maestoso e pieno di linfa, spumeggiante per l’ effervescenza della vita semplice”.
L’elemento dominante del romanzo è la noia, una noia profonda, la «noia moldava», come la chiama Cioran, «meno raffinata ma molto più corrosiva dello spleen». La noia che traspare dal romanzo di Blecher è un enigma. Ed è un miracolo non morirne. La noia non mostra nulla se non il suo effetto nel corpo della parola. Non è riducibile alla parola stessa, poiché in quanto affetto è irrappresentabile, ma quando il soggetto umano si trova a rispondere al suo enigma, la noia produce un sapere in grado di dilatarsi e di trasformare il soggetto stesso e il suo mondo.
La noia, per Max Blecher, non è nulla di meno che sentirsi soggetto, un perdersi e un possedersi, una sorta di sentire ontologico che si situa tra lo psicologico e il fisiologico, in cui il soggetto si soggettiva in un’assoluta desoggettivazione, un sentimento che nel tempo rappresenta un’auto-affezione in cui si è consegnati a una passività inassumibile, un atto paradossale dove la soggettività diventa il luogo di una costante sperimentazione verbale, dove la realtà cui si accede è puramente linguistica e dove si esercita il fondamento soggettivo nella parola.
Gli accadimenti nell’irrealtà immediata sono appelli impossibili del reale. Il compito del narratore, in quanto testimone, è quello di riuscire a rispondere a questi appelli. Il romanzo di Blecher risponde del reale in quanto impossibile, alludendo a questo impossibile, attraverso cui il soggetto giunge a cogliere l’esclusività di una verità che nel tempo si ripete. Nel momento in cui il soggetto risponde all’appello, la scrittura di Blecher apre la strada di un ritorno verso quel reale, in cui persiste e insiste tutta la negatività della condizione umana.
La vita per l’autore è un continuo sfuggire con il pensiero ad una forma e quindi esistere significa essere in luogo come allo stesso tempo in un altro. Blecher si esprime con un linguaggio sia delicato, raffinato sia intriso di passionalità, eroticità anche nel rapporto con la sua compagna Edda. Il fatto è però che egli non riesce a vedere negli altri uomini un’ esigenza analoga e cioè sfuggire alla monotonia, al grigiore quotidiano, neppure riesce a convincere Edda che in fondo alla stanza, al posto di una semplice sciarpa, c’è un vaso di bellissime dalie rosse: “ Tutte le cose, tutte le persone erano racchiuse nel loro piccolo e triste dovere di essere precisi, null’altro che precisi. Inutile credere che in un vaso ci fossero delle dalie, quando lì c’era una sciarpa”.
Lo scrittore, per concludere, si sente inadatto, non in sintonia con “ la realtà” come capitato per caso. Infatti, scrive: “ Il mondo aveva un aspetto comune al centro del quale ero capitato per errore. Mi sentivo la testa stretta nell’ ossatura del cranio. Terribile e dolorosa detenzione…”.
Ma nonostante la sua posizione “ orizzontale” costrittiva è riuscito a raggiungere quella “ verticale” della letteratura.
Pasquale Ciaccio