“Cella” (Marsilio, 2015) di Gilda Policastro implica prima di tutto una riflessione attenta sul linguaggio, sulla narrazione, sulla struttura del libro.
In poesia recentemente l’ italianista si è distinta per le eavesdropping da cui ha ricavato le cosiddette “epifanie del quotidiano”. Allo stesso tempo la sua poesia è poesia di ricerca e un nuovo tipo di poesia aforistica.
Perché il titolo “Cella”? La protagonista a tale riguardo così si è espressa: “Perché mi chiamano Cella, chiedo al cane. Forse perché sto chiusa in casa, perché non vado al di là del cancello, tranne che per la spesa, le necessità. O forse perché amo un uomo che in cella, in effetti, dovrebbe finirci, anche se nessuno ha ancora trovato il modo. La colpa non coincide con la punizione quasi mai. Sarebbe bello se la sofferenza avesse quel risarcimento. Lui mi ha lasciata e ora paga. Invece a rimanere dentro, sconfitta, sono io. Cella».
In verità come afferma Giulio Mozzi il romanzo può essere interpretato in vari modi: 1) come la storia di una donna sottomessa ad un medico potente. L’intera storia è lo sfruttamento sessuale di questa donna 2) come il racconto di una ex brigatista, che viene curata dal medico. La storia tratta della competizione con un’altra donna, ovvero l’amante ufficiale del dottore. Gilda Policastro ha dichiarato nell’intervista a Mozzi che i brani attribuibili con certezza all’ex brigatista sono stati scritti anni prima rispetto al resto del romanzo 3) come la storia di una donna, inventata da Giovanni Principe, amante della protagonista.
Il risvolto di copertina descrive il romanzo secondo la prima interpretazione. La Policastro gioca con il lettore e con i critici. L’io narrante non fa altro che aprire e chiudere parentesi, saltare da una età all’altra o da un luogo all’altro. Si perde in digressioni, in flashback impietosi, in aneddoti. Tutto questo va a costituire il suo vissuto. Non le importa sapere se la sua storia interesserà qualcuno oppure no. Non le importa sapere se ciò può essere più o meno insignificante. Vuole comunque raccontarsi, anche se forse è bugiarda. Forse alcune bugie le dice a fin di bene, cioè per stare meglio con sé stessa. Ma non è questo l’importante.
L’importante è il senso complessivo del suo racconto, il quale, frase dopo frase ci confessa che dal suo quotidiano scaturiscono noia e mancanza dell’amato. La donna ci racconta che è stata torturata sia dalla vita che dai suoi amanti. Con questo romanzo la Policastro ha analizzato le dinamiche psicologiche che sottostanno ad un particolare tipo di relazione di tipo sadomasochista.
Il sadomasochismo non è fisico (se così fosse il dolore sarebbe anche l’anticamera del piacere e ci sarebbe almeno un rilascio di endorfine da parte della sottomessa). L’amante è un sadico dal punto di vista psicologico. Potremmo classificarlo come un narcisista perverso. Non prova empatia per gli altri, che tratta come oggetti.
La Policastro tratta del sesso, ma non ne è ossessionata come molte altre scrittrici odierne, né affronta questo tema per vendere di più, secondo il modello delle tre s (sesso, sangue, soldi), né ammiccando al mercato, ai mass media. L’autrice non brama un posto nei talk-show.
La scrittrice non può esimersi dalla descrizione dei rapporti sessuali per far capire al lettore il tipo di relazione instaurato tra la protagonista e il medico. Quello che interessa mettere in luce alla Policastro forse è la forma di potere che viene esercitato sulla “reclusa”. Il sesso è solo uno degli aspetti per porre l’accento sul rapporto ossessivo che lega i due.
La protagonista è asessuata e allo stesso tempo anaffettiva. Per lei sua figlia è un’estranea. La donna è dipendente dal suo amante. La Policastro qui non si lascia mai prendere dal sentimentalismo, memore della lezione sanguinetiana sull’eccesso di effusioni nella letteratura moderna. La scrittrice non sarà mai una Liala postmoderna, in quanto non rientra certamente tra quelle che vengono definite “pornoromantiche”.
Non è infatti mai pornografica e neanche romantica. La sua reclusa non è una patita del sesso né del sadomaso. La protagonista non vorrebbe una relazione come quella. Non ha un bisogno inconscio di essere punita. Non prova piacere nel dolore fisico e neanche si compiace della sua sofferenza. Semplicemente sopporta tutto perché non ha avuto ottimi esempi da parte dei genitori. Suo padre è stato un “tiranno buono”. Ha lasciato la moglie. Si è indebitato per comprare una villetta. Sua madre ha lasciato fare, pur sapendo che il dentista presso cui lavorava la figlia le metteva continuamente le mani addosso.
Per dirla alla Jung il suo è un caso di ombra rimossa. Non riesce in questo senso a lavorare sul suo passato e neanche sulla sua parte oscura. La protagonista non riesce, nonostante gli sforzi, mai ad affrontare veramente sé stessa. Una vera relazione sadomaso per essere tale implica il consenso da parte di entrambi. Qui la vittima è obbligata alla sottomissione per fare in modo di non perdere l’amato ed è costretta a sottostare ai rituali di sottomissione e ai codici di autorità. Il suo amante vuole il controllo.
Non è un caso che quando la scrittrice descrive una delle sessioni di sesso estremo con il professore (non con il medico, suo amato) in realtà descrive soprattutto il doppio legame, cioè i messaggi contraddittori e l’ostilità del professore. Ancora una volta il senso di questa descrizione è quella che gli psicologi chiamano “la falsa autorità” insita nel doppio legame di Bateson.
I messaggi contraddittori generano incongruenza interna: sono dei cosiddetti “inquinanti” della psiche. Per Bateson esistono due modalità di comunicazione verbale: il discorso vivente ed il discorso morente. Il discorso vivente è caratterizzato da relazioni sociali autentiche, partecipazione attiva, reciproca comprensione. Nel discorso morente invece il linguaggio è imposto ed ogni partecipante è controllato e controllante. Il discorso morente crea un clima ricattatorio ed ostile.
Questo tipo di linguaggio porta all’abuso delle persone. Il discorso morente significa potere, controllo, obbedienza, prevaricazione. Il dito viene sempre messo nella piaga. Le critiche sono fatte ad arte per far perdere fiducia alla vittima. L’obiettivo a lungo termine in molti casi è quello di distruggere l’identità altrui. In questi caso c’è solo discorso morente ed alla protagonista non resta altro che subire. Lo psicologo del lavoro Spaltro, scrisse in un suo libro che “il conflitto non è una patologia relazionale, ma è la relazione in se stessa”.
In fondo la psiche può molto. La psiche può molto (sia nel bene che nel male). È statisticamente provato ad esempio che muoiono meno persone per le festività rispetto agli altri giorni ed anche che ci sono meno viaggiatori durante i disastri aerei o ferroviari (sesto senso? Forse. Ci sono comunque in quei giorni più persone che perdono il treno o l’aereo). Questi sono casi in cui la psiche è determinante nel bene.
Ma può avvenire anche il contrario. La psiche può molto anche nel male. In questo romanzo tutti fanno del male psicologicamente alla protagonista, che però commette un peccato comune a molti attualmente: quello di perdere la sua individualità e la sua autostima per raggiungere una parvenza di amore. Lo stesso Freud a riguardo scriveva che “l’amore è il passo più vicino alla psicosi”.
La Policastro fa dire al suo personaggio principale che “l’amore è sofferenza”. Infatti in questo caso è anche rinuncia, umiliazione, abbandono, perdita. Anche il linguaggio può molto. Esistono le terapie della parola. La parola può anche essere un’arma.
Probabilmente Gilda Policastro vuole descrivere questo particolare tipo di relazione ossessiva per evidenziare la conflittualità inevitabile presente in ogni relazione amorosa e il sadomaso diviene solo uno specchietto per le allodole, e magari portarci nell’inferno della comunicazione. La sua forse è una catabasi della parola e della relazione umana.
La stessa autrice ha dichiarato che voleva raffigurare l’amore come una prigionia. Inoltre la comparsa della brigatista rossa non è un modo per trattare della rivoluzione mancata o della resistenza tradita, ma è un espediente per sottolineare ancora una volta le conseguenze estreme di un rapporto ossessivo. Senza ombra di dubbio il legame tra la protagonista e il medico non può essere considerato una risorsa relazionale. Il medico è un donnaiolo impenitente, che usa e getta le sue amanti.
Quando si accorge di essere amato ecco allora che abbandona la donna.
Cella è anche il racconto di un corpo sottomesso, sfruttato e umiliato. Alla Policastro è sempre interessato il tema della corporeità. Ogni vita in fondo è storia di un corpo, dalla sua nascita al suo declino inarrestabile.
La scrittrice inoltre descrive anche il rapporto tra la “reclusa” e la figlia, che si potrebbe sintetizzare ricordando con le sue stesse parole che il dovere di una madre è quello di tacere e sopportare. Molto realistica è la descrizione degli adolescenti dei giorni nostri, che si filmano in ogni momento ed in ogni cosa che fanno. Molto divertente e parodistico è l’utilizzo da parte della protagonista del linguaggio psicologico.
La Policastro si avvale dell’uso del monologo interiore continuo, di un flusso di coscienza intriso di psicosi e psicologismi. È la storia di un soggetto senza nome e allo stesso tempo del sacrificio di una donna.
Gilda Policastro potrebbe anche scrivere un romanzo senza trama ed essere ugualmente avvincente. Ogni sua parola è ponderata. Il suo è un romanzo sperimentale e per nulla commerciale.