«Tutte le immagini scompariranno». Si apre così, con questo perentorio statuto di verità, il romanzo autobiografico Gli anni che è valso ad Annie Ernaux, classe 1940, il Premio Strega Europeo (2016), oltre a svariati altri riconoscimenti ufficiali in ambito francese.
Pubblicato nel 2008, Gli anni è la «cronistoria» di una vita dagli anni Quaranta ad oggi, in cui l’elemento privato e l’elemento collettivo si intrecciano indistricabilmente, sulla scorta dei “Je me souviens…” attraverso cui Perec cantò la serie infinita delle piccole memorie che accomunavano un’intera generazione: sigle, pubblicità, film, mode, gerghi, ma anche eventi politici, sociali e scorci storici che hanno segnato un’epoca. Il punto di partenza della narrazione – o, più propriamente, della rievocazione–è l’oblio: l’oblio da cui siamo stati strappati al momento della nostra nascita; l’oblio amnesico della prima infanzia, di cui abbiamo testimonianza solo indiretta – in cui, peraltro, stentiamo a riconoscerci -; l’oblio, infine, che seguirà la nostra morte, e la cui prospettiva costituisce precisamente il movente della rievocazione.
Venendo a mancare la coscienza, intesa come «memoria di sé», l’intera costruzione dei ricordi associati a quel «sé» verrà meno: non «ricordando» più noi stessi, non potremo ricordare nulla di tutto ciò che ci costituiva intimamente, comprese le immagini dei volti amati, le voci, i suoni, i piccoli momenti che abbiamo custodito per una vita.
Per questo motivo, lo spazio della nostalgia deve necessariamente essere risospinto entro i confini della vita, dilazionato nei giorni, mesi e anni che la compongono, inducendoci a una «commemorazione in vitam» di noi stessi, cioè dei ricordi che conserviamo, dalla nascita fino al momento presente. L’unità psicologica dell’individuo è sfaldata secondo piani paralleli, «sfogliata» nei diversi «Io» che si avvicendano, di giorno in giorno, compattati dall’illusione di un’unità organica, di un corpo e di una coscienza immutabili nel tempo. Ciò che eravamo ieri, oggi non ci appartiene già più: a tutti i nostri «Io» passati è rivolta la preghiera funebre della nostalgia. Ma ciò che è perso a livello individuale può essere riscattato in due modi: attraverso la «memoria collettiva», che raccoglie il materiale refluo delle singole vite e lo sublima, preservandolo dall’azione del tempo; o attraverso la scrittura, che è in grado di salvare «le immagini di un momento bagnate da una luce che è soltanto loro […], e che non ha smesso di depositarsi sulle cose appena vissute».
Questo è ciò che Annie Ernaux realizza ne Gli anni, privilegiando l’uno o l’altro espediente a seconda che le testimonianze da salvare siano, rispettivamente, tendenzialmente condivise o tendenzialmente private. In questo libro, infatti, la rievocazione scaturisce da fonti diverse, svolgendosi su piani altrettanto distinti.
Gli anni, la componente predominante dell’autobiografia collettiva
C’è la componente – predominante negli Anni – dell’«autobiografia collettiva», che emerge da un corpus di frammenti slegati, immagini brevi, lasciate cadere apparentemente alla rinfusa da un narratore totalmente neutro, aperto all’identificazione di coloro che hanno vissuto quegli stessi avvenimenti, quello stesso clima, quegli stessi ricordi. In realtà, oltre all’inevitabile ordine cronologico dei fatti storici rappresentati – dalla Seconda Guerra Mondiale, al conflitto d’Algeria, all’avvicendarsi di primi ministri e partiti, fino al ’68, alla rivoluzione della società occidentale, a Internet e ai nativi digitali -, esiste una logica alla base dell’esposizione delle varie immagini-satellite che costellano l’intero testo: non una logica aristotelica, asimmetrica, che procede per unità, ma una nuova logica simmetrica, che concatena le immagini per analogia, come se nascessero spontaneamente l’una dall’altra (teoria peraltro affine a quella della bi-logica di Ignacio Matte Blanco).
Ma la «generazione» a cui la Ernaux dà voce negli Anni non è solo quella, definita, dei nati in Francia intorno al secondo dopoguerra, bensì quella estesa nel tempo e nello spazio alla totalità degli uomini e delle donne, le cui vicende si avvolgono su se stesse, ripetendosi all’infinito, ciclicamente, e conservando intatto il nucleo fondamentale del «tipo umano»: le condizioni di contorno cambiano, la società si evolve, ma i problemi, le questioni, le sofferenze, le ambizioni degli uomini restano immutati, per quanto ammantati di nuove tecnologie, ideologie e libertà.
L’importanza della memoria
In seconda istanza, la memoria può derivare da supporti fisici (quali fotografie, filmati, e così via), che la Ernaux si premura di ricavare dal proprio archivio personale, intercalandoli – sempre verbalizzati, cioè descritti, non presentati fisicamente – alla materia collettiva, ma trattati alla stregua di essa: la prima persona è totalmente abolita, e il distacco analitico con cui l’autrice descrive le fotografie e i video di cui essa stessa è il soggetto corrisponde allo scarto identificativo che intercorre tra la donna rappresentata e la donna presente, riscontrabile anche nelle scelte stilistiche, rese esplicite nell’ultima parte del testo: «Sarà una narrazione scivolosa, in un imperfetto continuo, assoluto, che divori via via il presente fino all’ultima immagine di una vita. Un fluire interrotto, tuttavia, da foto e sequenze di filmati che a intervalli regolari coglieranno la forma corporea e le posizioni sociali successive del suo essere, fermi-immagine della memoria e allo stesso tempo resoconti sull’evoluzione della sua esistenza.»
Infine, la memoria può scaturire dall’interno, in maniera volontaria o involontaria; per Annie Ernaux, questa è la memoria degli «oggetti desueti», degli scarti, dei ninnoli e delle quisquilie inutili che affollano i nostri giorni, e a cui siamo profondamente legati. In un ardito paragone con Proust, a cui l’autrice si è ispirata sin da giovanissima come a un «insegnante di vita», è essa stessa a sottolineare la differenza che intercorre tra le loro poetiche: non un «edificio del ricordo» aspira a realizzare, né una letteratura in grado di colpire con il proprio acume, la propria verità incontestabile che insegna a vivere, bensì confida in una intimistica poetica degli scarti, genuina, dimessa, autentica, in grado di riportare il focus sulla spesso deprecata «banalità» della vita, ovvero sull’esperienza stessa di vivere, superiore a qualsiasi sovrastruttura letteraria o ideologica.