Probabilmente Il nero e l’argento non è un romanzo che lascia il segno, anzi a tratti risulta piatto e ripetitivo, ma è un libro che consigliamo di leggere in quanto segna un ulteriore miglioramento sul piano dello stile di Paolo Giordano. Viene a galla che l’umore “nero” del protagonista (nero come la malattia), così carico di malinconia e “l’argento di lei”, pieno di vitalità, luce, riflessi, non riescano più ad amalgamarsi, si ritrovano al limite del baratro senza rendersi conto che la forza, il coraggio e la tenacia della loro balia adesso è anche parte di loro stessi.
E’ dentro le stanze che le famiglie crescono: strepitanti, incerte, allegre, spaventate. Giovani coppie alle prime armi, pronte ad abbracciarsi o a perdersi. Come Nora e suo marito. Ma di quelle stanze bisogna prima o poi spalancare porte e finestre, aprirsi al tempo che passa, all’aria di fuori. Ed è così che la signora A., nell’attimo stesso in cui entra in casa per occuparsi delle faccende domestiche, diventa la custode di una relazione, la bussola per orientarsi nella bonaccia e nella burrasca. Con le pantofole allineate accanto alla porta e gli scontrini esatti al centesimo, l’appropriazione indebita della cucina e i pochi tesori di una sua vita segreta, appare fin da subito solida, testarda, magica, incrollabile:
La signora A. era la sola vera testimone dell’impresa che compivamo giorno dopo giorno, la sola testimone del legame che ci univa. Senza il suo sguardo ci sentivamo in pericolo.
Ci sono molti modi per raccontare una storia d’amore e Paolo Giordano, torinese, classe 1982, vincitore del Premio Strega e del Premio Campiello Opera Prima con il celebre La solitudine dei numeri primi, ha scelto la via più sensibile: registrare come un sismografo le scosse del quotidiano, gli slanci e i dolori, l’incapacità e il desiderio. Solo un piccolo naufragio, il primo tra i tanti che una coppia si troverà ad affrontare.
La narrazione de Il nero e l’argento è concentrata prevalentemente nella voce di uno solo dei protagonisti, quella maschile, che raccoglie e rielabora un insieme di ricordi e di immagini slegati da continuità temporale. Al di là dei nomi e dei volti, appositamente sfocati, i protagonisti della storia sono i complessi meccanismi di coppia e familiari, la loro solidità o fragilità; insomma quel micro-mondo che si crea tra le mura di casa, con regole, consuetudini, equilibri. Una famiglia giovane, la gestione della quotidianità, la ricerca della completezza dell’uno nell’altro, le mancanze, i silenzi; e poi le finestre si aprono ed entra una ventata d’aria fresca tra quelle mura, che come una scossa elettrica riporta il riappropriarsi della vita, divenendo collante tra particelle oramai alla deriva.
Paolo Giordano in pochissime pagine riesce a far parlare i sentimenti, portando in superficie tutti i colori dell’anima; ci sono le tinte fosche dell’incomprensione e della chiusura, le sfumature nebulose dell’evanescenza e della superficialità sino ad arrivare ai i colori più accesi sprigionati dai momenti più intensi della vita. Si intrecciano prepotentemente l’amore ed il dolore (la malattia e la morte della signora A.), la vita e la morte, come due facce alterne di un’unica medaglia.
La vita raccontata da Giordano non fa sconti a nessuno, scorre tra dolcezze e amarezze, amore e morte, incompatibilità e inadeguatezze, preghiere, scandita da un’alternanza di momenti chiari e scuri. Efficaci le analogie scientifiche che l’autore torinese utilizza per descrivere l’incompatibilità dei due caratteri; due colori “insolubili l’uno nell’altro”: “dall’emulsione iniziale degli umori si producono degli strati. L’esuberanza di Nora e la mia malinconia; senza contare i titoli di due capitoli: La tabellina del sette e I vasi comunicanti. I punti di debolezza del romanzo sono invece la monotonia e l’assenza di accelerazioni e cambi di ritmo per quanto riguarda il contenuto.
E’ palpabile una vena di pessimismo che scorre lenta e sotterranea, indugiando sotto le maschere dei ruoli ricoperti in famiglia (la coppia ha anche un figlio, Emanuele) e nella società. Ritorna anche in questo romanzo il tema della solitudine già emerso e scandagliato ne La solitudine dei numeri primi e ne Il corpo umano; si tratta di una solitudine amara come veleno ed insidiosa, camuffata dapprima dal desiderio di condivisione e realizzazione attraverso la coppia e alla fine esplosa nel luogo più intimo, come il focolare domestico, luogo che dovrebbe unire e cementare gli animi.
Il nero e l’argento è un’ottima prova di scrittura, che mette in luce la crescita stilistica dell’autore; il linguaggio è diventato più “maturo”, raffinato, l’espressività è potenziata.
Paolo Giordano si conferma ancora una volta autore capace di indagare l’uomo, senza scivolare nella banalità e nei sentimentalismi, infondendo ai propri scritti un’emozionalità forte, fotografando situazioni figlie del quotidiano e della società attuale. Nel finale, Giordano chiude bene con una scena emozionante, in cui svela un piccolo enigma, rendendo però il romanzo freddo, troppo calcolato e scientifico. Insomma un prodotto letterario ben confezionato.
A lungo andare ogni amore ha bisogno di qualcuno che lo veda e lo riconosca, che lo avvalori, altrimenti rischia di essere scambiato per un malinteso.
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