È alla fine di ogni libro, che spesso ci si ricorda della prima riga letta. O quantomeno, aver sfogliato la prima pagina dopo l’ultima di questo romanzo, mi ha ricordato che la pista da seguire fosse stabilita dal principio.
Auto-pubblicato nell’aprile del 2023, L’eredita Rocheteau è un giallo dalle tinte chiaro-scure dove Valeria Ossoinack costruisce, con agilità e cura, una struttura narrativa che ruota attorno alle meschinerie ed i segreti di una potente famiglia alto-borghese. Il sugo dell’inchiostro? il rapimento del membro più fragile e scomodo di questa famiglia, eseguito alla lettura, ricezione e difficoltosa accettazione del testamento del potente Pierre Rocheteau, nonno della vittima e capofamiglia indiscusso.
Valeria Valcavi Ossoinack, autrice piuttosto produttiva, di gialli ne ha scritti diversi nell’arco della sua carriera. Quest’ultimo prende le mosse da una Parigi subdola e sofisticata.
Una Parigi che il lettore attraversa con una sorta di bussola in testa, seguendo indirizzo dopo indirizzo, le mosse e contromosse di tutti i personaggi coinvolti. Al centro dell’intrigo, tutta l’eredità. Un lascito importante ben oltre il fattore economico. Di fatto, l’autrice utilizza questo mezzo, accattivante e semplicemente funzionale ai fini di un giallo familiare, come una sorta di contrappasso dantesco che premia, punisce o salva le anime che tocca. Come se Pierre fosse il fantasma dickensiano dei Natali passati, presenti e futuri.
L’agilità di questa mossa autoriale è tutta riversa nella compostezza e rapidità dei capitoli, mai troppo estesi sebbene accurati. Quasi sempre efficaci a fornire quel minimo di informazioni utili per ricostruire, attraverso la lettura, quel puzzle intricato di tasselli che, come si apprenderà, erano stati scomposti e violentemente gettati nell’oblio anni ed anni addietro le vicende attuali. Tasselli di un puzzle che mai prima questa famiglia aveva tentato di ricomporre, semplicemente di capire.
Piena zeppa di dialoghi e capitoli composti da miriadi di virgolettati, il cuore della storia fluisce dentro le mura della prigionia. Interessante, a volte banalmente, è il fatto che si avverte una familiarità anche tra vittima e carnefice. Una familiarità emotiva, che coinvolge l’arte di cui si nutrono insieme, sebbene secondo diversi canali. La prigioniera è un’artista affermata, il carceriere un ammiratore.
Attraverso il loro dialogo, affettuoso per quanto sinistro, si torna indietro e lo si fa ogni volta che il sentimento dell’amore si mescola al terrore. Si rivive il passato della vittima, si tenta un’empatia con il suo presente e, minimamente, anche con quello dei suoi rapitori.
Dialoghi freddi, freddure e sarcasmi, invece, a dirigere il tempo presente. Più gretto e misero del bisogno assoluto di denaro. I personaggi possono essere divisi in buoni e cattivi. Non sono mai nell’ombra e pure vivono dell’ombra di loro stessi e dentro quelle esatte misure piano piano svelate.
I molti passaggi descrittivi, per l’appunto accurati e dettagliati, creano sufficientemente bene l’ambiente ideale per indirizzare il lettore verso la matrice dell’intrigo e tenerlo aggrappato alla sua propria immaginazione. Fino alla fine, senza pietà.
Il tutto, raccolto dentro sequenze fortemente visuali. Capitolo dopo capitolo, ci si ritrova dentro un nuovo appuntamento di una si quelle serie poliziesche a puntate in cui, nella finale, si rivela l’orrore assieme alla liberazione.
Quando poi, non troppo sorpresi ma ad ogni modo colpiti, si rilegge l’esergo e ci si ricorda che sì, Ossoinack ce lo avevo predetto attraverso le parole di Socrate: tutte le guerre sono combattute per denaro.