“Fai bene a dire tenere invece di avere. Avere è presuntuoso, invece tenere lo sa che oggi tiene e domani chi sa se tiene ancora.” Montedidio di Erri De Luca è una storia narrata con dolcezza e passionalità, con amore e orgoglio in quella lingua, quel dialetto che ti si “appiccica” addosso se sei nato e cresciuto a Napoli.
Non siamo a Gerusalemme, bensì a Napoli in uno dei suoi luoghi più antichi, forti, colmi di storia, di realtà, di verità, quella che scorre nelle vene, quella che non puoi dimenticare, allontanare, ma solo vivere. Un ragazzino sembra essere il protagonista di uno dei libri più belli scritti da colui che continua ad emozionarci con quel dialetto, quella lingua e tutto dice attraverso poche parole, piccoli gesti.
“L’italiano è una lingua senza saliva, il napoletano invece tiene uno sputo in bocca e fa attaccare bene le parole. Attaccata con lo sputo: per una suola di scarpa non va bene, ma per il dialetto è una buona colla.”
Ma qui, tra queste pagine, ancora una volta nei romanzi di De Luca, la nostra protagonista è Napoli, raccontata e vissuta. Un ragazzo mette per iscritto i suoi pensieri, la sua vita. A tredici anni impara il “mestiere”, l’italiano, “l’ammorre”, quello con due emme, quello che forse non puoi raccontare. O forse si. Perchè lui, Erri De Luca, ci riesce. Riesce a spingersi oltre con semplicità e dolcezza, riesce a portarci in quei quartieri, vicoli, strade stretta dove anche i fantasmi sembrano non avere pace.
“… per le scale di sera passano gli spiriti. Senza il corpo hanno nostalgia solo delle mani e si buttano addosso alle persone per desiderio di toccare.”
Il primo lavoro è nella bottega di un falegname dove il nostro piccolo “protagonista” di Montedidio incontra e conosce un vecchio ebreo giunto a Napoli solo per caso. La sua meta era un’altra, Gerusalemme, appunto. Giunge in treno Don Rafaniello. E lì, mentre osserva e spera, odori, rumori, un qualcosa d’immenso mai visto prima lo porta in quella città, in quel paradiso che nessuno sembra aver compreso, non ancora, non oggi, non ora, non qui. Don Rafaniello resta a Napoli, insegna al piccolo bambino che vuole diventare uomo, a osservare la gente, il loro modo di stare al mondo, a comprendere i loro sogni, quei desideri nascosti, quegli adulti che non sanno che farsene della felicità. L’infelicità sembra più facile, si attacca addosso, come la colla, come il napoletano, come quella lingua.
Un mistero avvolge la vita di questo vecchio ebreo, una predizione, il sopraggiungere di quella fine, lieve, tanto attesa, che porta sollievo. Le ali di un angelo, o forse è lui, quell’angelo.
E poi il degrado familiare, la malattia della madre, un padre assente e l’ammore, quello per Maria. Una ragazzina, una bambina che la vita e le attenzioni malsane del padrone di casa hanno reso già grande. E ancora lui, il nostro piccolo uomo che sogna di salvarla, la sua amata e continua a vivere accanto a quell’angelo ebreo aspettando quelle ali che spunteranno dalla sua gobba. Lui lo sa, è solo questione di tempo. Volerà.
E poi un’immagine. Un oggetto che percorre le pagine di questo romanzo. Un pezzo di legno magico, un “bumeràn“, un regalo ricevuto dal padre con cui il ragazzo si allena ogni giorno, ma senza farlo volare. Aspetta, osserva. Lì non c’è spazio, presto ce ne sarà.
“…sopra questo quartiere di vicoli che si chiama Montedidio se vuoi sputare in terra non trovi un posto libero tra i piedi”.
Ma sarà questo continuo esercizio a portare in lui la consapevolezza del cambiamento. Il corpo cresce e cambia, così come la mente, i pensieri. Bisognerà attendere quella notte, la notte di capodanno. Quella notte in cui tutto finisce e tutto ha inizio. La notte della profezia, la notte del volo di un angelo, la notte fatta di libertà e speranze. Una notte che lascia “due piume e un paio di scarpe“.
“Le Monde” ha definito Montedidio il miglior lavoro di De Luca. In un tempo che sembra essere avvolto in un solo secondo, lo scrittore napoletano mostra un’adolescenza mai cominciata. Dal primo giorno di lavoro all’ultimo giorno dell’anno tutto sembra svolgersi in un istante. Un tempo veloce e inesorabile. E ancora lei, Napoli. Le sue strade, la sua forza, la sua voglia di essere compresa, l’impossibilità di riuscirci. Non tutti sono nati per capirla, questa città. I tentativi di capire, comprendere. Capire se stessi, capire ciò che cambia e ci avvolge, capire il mondo, quello degli adulti e quello che tocca la vita, in ogni sua sfumatura.
Piccoli capitoli, brevi, forti, intensi. Immagini che escono fuori attraverso poche parole. Eccolo. Un altro. Un capolavoro. Un’opera degna di essere vissuta.
“Mi chiedo da solo: non me ne potevo accorgere per conto mio di esserci? Pare di no. Pare che ci vuole un’altra persona che avvisa.”