“Dove inizia la fine del mare? O addirittura: cosa diciamo quando diciamo: mare? Diciamo l’immenso mostro capace di divorare qualsiasi cosa, o quell’onda che ci schiuma intorno ai piedi? L’acqua che puoi tenere nel cavo della mano o l’abisso che nessuno può vedere? Diciamo tutto in una sola parola o in una sola parola tutto nascondiamo? Sto qui, a una passo dal mare, e neanche riesco a capire, lui, dov’è. Il mare. Il mare”.
Oceano Mare è la seconda opera narrativa di Alessandro Baricco, pubblicata nel 1993 dall’editore Rizzoli. Il titolo è un superlativo, infatti il primo elemento ha valore di intensificativo del secondo e serve a celebrare il mito del mare che sarà alla base della storia, con evidenti richiami a Melville. Si tratta di un romanzo corale che appare dipinto, più che scritto, dato che la storia e i personaggi ivi narrati sono come pennellate sparse su di una tela, accennati ed impenetrabili, in un universo indefinito e senza tempo, che richiama elementi ottocenteschi. Alessandro Baricco elabora in questa sua seconda opera, dopo il romanzo d’esordio Castelli di rabbia, una tecnica di scrittura più consapevole e personale, più matura e scorrevole. Una vena antipsicologica, irrazionale, fantastica pervade la sua narrativa, dove le cose non hanno bisogno di motivi: accadono e basta, son lì a stupire, colpi di dadi nel gioco del Caso.
La locanda Almayer, nome che trae spunto dall’opera di J. Conrad, La follia di Almayer, è sita a Quartel e fa da sfondo e da non-luogo di passaggio per il viaggio metafisico dei protagonisti, posta tra la terra e il mare. La vicenda inoltre trae spunto da una tragedia, sepolta nel tempo, che ha visto naufragare una fregata francese, l’Alliance, al largo della costa del Senegal. L’intero equipaggio non poteva essere contenuto nelle poche lance a disposizione, così 147 uomini furono stipati su di una zattera collegata alle lance da una corda. Che la corda sia stata tagliata volutamente o meno, i naufraghi restarono presto sperduti nel mare, soli con i propri istinti e con una quantità esigua di scorte. Il marinaio Thomas sopravvive a questo inferno e l’unico scopo della sua vita rimane la vendetta, la stessa che lo porterà a seguire un uomo, il Dottor Savigny, fino alla locanda Almayer, calamita di tutte le storie intrecciate nel romanzo. Il mare è luogo di salvezza, di ricerca di un senso, punto di snodo per raggiungere una più completa consapevolezza di sé, come afferma Giovanardi ne I segreti della locanda Almayer (La Repubblica 07-01-03):
“Dall’Odissea fino a Moby Dick, il mare ha sempre rappresentato in vari modi, il tramite per una clamorosa uscita da se stessi, dai propri limiti, dai propri ambienti, dalla propria natura, e ha dunque incarnato un´istanza di estroflessione, di scoperta anche rischiosa e violenta del mondo o comunque dell’altro da sé, qui esso finisce per circoscrivere un luogo immaginario […] in cui alcuni stralunati personaggi tentano disperatamente di incontrare se stessi”.
La narrazione si divide in tre libri: La locanda Almayer, Il ventre del mare e I canti del ritorno. Tale suddivisione sembra essere spiegata ne Il ventre del mare, quando Thomas ricorda le parole del marinaio Darrell: “quelli che vivono davanti al mare, quelli che si spingono dentro il mare, e quelli che dal mare riescono a tormare vivi”.
La prima parte del romanzo rappresenta quindi “quelli che vivono davanti al mare”; qui vengono dipinti i tratti essenziali di tutti i personaggi: Plasson il pittore, Elisewin, malata di “paura”, e il suo padre spirituale Padre Pluche, il Professor Bartleboom, studioso strampalato, Ann Deveria, l’adultera, Adams, falsa identità sotto cui si cela il marinaio Thomas e la sua voglia di vendetta.
La seconda parte simboleggia “quelli che si spingono dentro il mare” e narra, attraverso una digressione, la tragica e sventurata vicenda dei naufraghi della fregata Alliance. La terza sezione fa riferimento a “quelli che dal mare riescono a tornare vivi” e racconta di come tutti i personaggi sopravvivono alla locanda Almayer e a quello che per loro rappresenta, non tutti raggiungeranno il proprio obiettivo ma in un modo o nell’altro arriveranno alla salvezza agognata e a una maggiore conoscenza di sé. A chiudere le vicende dei protagonisti la scoperta dell’ultimo ospite, rimasto nascosto per tutto il tempo nella stanza numero sette. È uno scrittore inquieto, un alter ego del narratore, anche lui, come gli altri ospiti della locanda, schiavo di un sogno: dire il mare.
Consapevole del proprio tentativo e del suo successivo fallimento, fa le valige, abbandona la propria stanza e si rimette in cammino. Dopo l’abbandono dell’ultimo ospite, ormai solo un’ombra in lontananza, la locanda Almayer e la spiaggia scompaiono sgretolandosi, mostrandosi ancora una volta non come un luogo di questo mondo ma come un frutto della mente del lettore, si sgretolano volando via in milioni di frammenti che si librano in aria, leggeri di una leggerezza che pervade tutto il romanzo. Le storie dei personaggi, gli intrecci, i paesaggi, tutto sembra sempre appena accennato, privo di quella pesantezza che gli consentirebbe di posarsi e di attecchire, con l’utilizzo degli stessi artifici tecnici di Castelli di rabbia come l’uso del corsivo e i sospensivi che indicano i silenzi.
Non a caso i protagonisti sono tutti in viaggio, solo di passaggio a Quartel, che non è né punto di partenza né di arrivo, centro di smistamento delle anime che indica la via per poi proseguire. Il mare è fonte battesimale di una nuova vita, il mare è divinità pagana a cui affidare le proprie pene, il mare che non ha né inizio né fine, il mare che non si può dire. Il mare che invita a non avere limiti e a provare nostalgia e pena verso il passato, carico di rimorsi dettati dalla paura di vivere davvero. Terminato il proprio compito, la locanda Almayer può dissolversi.
Baricco si avvale di una scrittura ricca di discorsi diretti fulminei, di pause, del “flusso di coscienza”, di illusioni che confinano con le disillusioni, di flashback e di continui cambi di ritmo, di colori e di tante sfumature, a tratti anche di pomposità, ariosità probabilmente inducendo qualche lettore a pensare che si tratti di ostentazione, vista l’attitudine da parte dello scrittore a giocare con le parole, mentre altri troveranno il linguaggio sofisticato dell’autore molto suggestivo. Sublime o puro esercizio di stile?