Lo splendido stato di conservazione di questo Quaderno della Medusa è solo apparente: lo si deve al fatto che è stato conservato, chissà perché, con una sopracopertina di carta da imballaggio, come si faceva un tempo con i libri di scuola e, come quelli, si è conservata come nuova la sola copertina, mentre le pagine interne sono macchiate, così come il taglio ingiallito rivela la sua vera età: 56 anni. Davvero sorprendente questa collana, Quaderni della Medusa, nata nel lontano 1934, come la sua verde sorella, più grande di un paio di anni, deve la moderna eleganza grafica alla genialità dell’illustratore Bruno Angoletta (1889-1954); la nuova collana raccoglieva saggi, biografie, epistolari, diari di viaggio di scrittori e pensatori illustri oggi dimenticati: Huxley, Zweig, Maurois, Mauriac, ma anche Kafka (Confessioni e Immagini n. 47), questa di Nabokov è la n. 55. La collana concluse il suo ciclo nel 1967 con il volume n.75 Susan Sontang Contro l’interpretazione, purtroppo oggi introvabile.
Vladimir Vladimirovič Nabokov (1899-1977), in questa sorprendente autobiografia, che è per struttura e linguaggio un vero romanzo, dove il tempo – a cui l’autore dichiara di non credere – è il vero protagonista, si trasforma nello sconcertante reporter della propria vita, che seguiamo con autentica emozione. Il futuro autore di Lolita era nato in una nobile famiglia di San Pietroburgo, la cui casa natale è oggi sede di un Museo Letterario, a lui dedicato; figlio di un politico liberale deputato alla Duma, Vladim Dimitrievič, che fu ucciso nel 1922 a Berlino, quando protesse col proprio corpo l’amico Pavel Miljukov, obiettivo dell’attentato.
Con la «singolare nitidezza» di qualcosa che si vede dall’altro capo di un telescopio, minuscolo ma provvisto dello smalto allucinatorio di una decalcomania, Nabokov ha lasciato affiorare dalle pagine di questo libro la sua fanciullezza nella «Russia leggendaria» precedente alla rivoluzione, troppo perfetta e troppo felice per non essere condannata a un dileguamento istantaneo e totale, sospingendo poi il ricordo fino all’apparizione dello «splendido fumaiolo» della nave che lo avrebbe condotto in America nel 1940. «Il dettaglio è sempre benvenuto»: questa regola aurea dell’arte di Nabokov forse mai fu applicata da lui stesso con altrettanta determinazione come in Parla, ricordo. Qui l’ebbrezza dei dettagli che scintillano in una prosa furiosamente cesellata diventa il mezzo più sicuro, se non l’unico, per salvare una moltitudine di istanti e di profili altrimenti destinati a essere inghiottiti nel silenzio, fissandoli in parole che si offrono come «miniature traslucide, tascabili paesi delle meraviglie, piccoli mondi perfetti di smorzate sfumature luminescenti». Compiuta l’operazione da stagionato prestigiatore itinerante, Nabokov riarrotola il suo «tappeto magico, così da sovrapporre l’una all’altra parti diverse del disegno». E aggiunge: «E che i visitatori inciampino pure». Cosa che ogni lettore farà, con «un fremito di gratitudine rivolto a chi di dovere – al genio contrappuntistico del destino umano o ai teneri spettri che assecondano un fortunato mortale».
L’infanzia che Vladimir Nabokov ci racconta è incantevole, fiabesca: si svolge tra il sontuoso palazzo di famiglia in via Morskaj, attualmente Museo Letterario, e la residenza estiva nella grande tenuta nel distretto di Carskoe Selo, dov’era anche la residenza estiva degli zar, ma lo si incontra anche all’estero dove l’Europa aristocratica, biancovestita ama trascorrere le vacanze nei luoghi più esclusivi, tra Antibes e Baden-Baden, fruitori di villeggiature eleganti e serene. E’ ad Antibes che, a dieci anni, Nabokov incontra una bambina e se ne innamora, si chiama Colette. Che si tratti della famosa Colette, la futura autrice di Chéri, della indimenticabile serie di Claudine e di Le blé ed herbe? Ma Colette è nata 16 anni prima di Nabokov.
Stupisce la ricchezza del linguaggio di Lolita; considerato che l’autore non era di lingua madre. L’autobiografia ci svela che il giovane Vladimir apprese a leggere e scrivere in inglese prima che in russo, dai numerosi istitutori e istitutrici avuti nell’infanzia. E veniamo dell’antisovietismo di Nabokov. Sei nato da una antica famiglia nobile, vivi negli agi più esclusivi in un momento storico in cui la maggioranza dei tuoi concittadini soffre la miseria più nera, fai parte di un ristretto gruppo di intellettuali in contatto con l’Europa, tuo padre è un politico liberale, deputato alla Duma che appoggia il governo Kerensky, è normale che quando trionfa la Rivoluzione d’Ottobre, ti toglie tutti i privilegi e ti costringe alla fuga, non è che puoi amarlo il regime comunista! Ma Nabokov lo chiarisce: non è questione di rubli:
Il brano che segue non è destinato al comune lettore, ma a quel singolo idiota che, per aver perduto un patrimonio in un crac finanziario, crede di potermi capire.
La mia antica ostilità (risale al 1917) contro la dittatura sovietica, è del tutto indipendente da ogni questione di proprietà. Il disprezzo che io nutro per l’èmigré de Kichovski, il quale “odia i comunisti” perché gli “rubarono” il denaro e le terre, è assoluto. La nostalgia che ho provato e avuta cara in tutti questi anni è una sensazione ipertrofizzata della fanciullezza perduta, e non dolore per la perdita delle banconote. E ancora:
Datemi qualsiasi luogo, su un qualsiasi continente, che assomigli alla campagna pietroburghese, e il mio cuore si scioglie all’istante.
Notevole per l’inquietudine che genera, l’incipit del libro:
La culla dondola su un abisso, il buonsenso ci dice che la nostra esistenza è soltanto un fuggevole spiraglio di luce tra due eternità di tenebre. Benché le due eternità siano gemelle identiche, l’uomo, di norma, contempla l’abisso prenatale con più serenità di quanto non contempli quello verso il quale è diretto (a circa quattrocentocinquanta battiti cardiaci orari).