Quattro soli a motore (Neo edizioni, 2012) di Nicola Pezzoli è il primo libro della saga dedicata a Corradino, il quale è stato seguito da Chiudi gli occhi e guarda (2015) e dal recentissimo Mailand (2016). Come la maggior parte dei romanzi che ruotano intorno alla vita di una singola persona, si classifica pienamente all’interno del genere di formazione.
Quattro soli a motore: “Corradino c’est moi. Corradino ce n’est pas moi”
Iniziamo col dire qualcosa di assurdo: Quattro soli a motore presenta uno degli incipit più robusti mai letti ma, al contempo, fonda molta della sua forza narrativa su una “truffa”. Proprio così, una truffa, ma di quelle che, da un lato, si “sciolgono” e si giustificano solidamente all’interno del testo, rendendosi così coerente al lettore; e dall’altro si “perdonano”, poiché quando ci si accorge di questa truffa (che tante aspettative ha creato nel frattempo) si è già immersi in una lettura che assorbe. Per capire di che tipo di truffa parliamo, è bene leggere la prima parte dell’incipit:
Se non vi piace Corradino, chiamatemi come vi pare. Solo vi prego non chiamatemi Scrofa. Non è giusto chiamare Scrofa un ragazzino di undici anni. Tanti ne avevo nel 1978, l’estate che divenni un assassino. Quell’anno accaddero cose che ancora mi fanno tremare e che adesso proverò a confidarvi. Possano perdonarmi le anime delle persone che ho ucciso. Perché una parte di me continua a pensare che i fatti si sono svolti così, che non si è trattato di pure coincidenze, e nessuno mi convincerà mai del contrario.
Da lettori ci si aspetta qualcosa di sconvolgente quando l’autore ci fa avvicinare, senza mezzi termini, alla possibilità che un bambino di undici anni di nome Corradino sia un assassino. Oltre a questo fatto, in queste poche righe aleggia una sensazione di oscurità (rinvenibile in tutto il romanzo) che è difficile togliersi di dosso. “Non è giusto chiamare Scrofa un ragazzino di undici anni” rimanda a un senso di giustizia universale infranta, mentre “possano perdonarmi le anime delle persone che ho ucciso” ha molto il sapore di un peccato da espiare. E così è, se si pensa all’educazione cattolica “da paese” impartita al protagonista.
Ma poi, nel prosieguo della storia di Quattro soli a motore, scopriamo che non c’è stato alcun assassinio; che il piccolo Corradino, in quell’estate del ’78, si è ritrovato a odiare alcune persone, con la morte delle quali niente ha avuto a che fare se non l’aver desiderato la loro fine in un taccuino rosso sottratto sette anni prima a una “cugina della nonna”. Ma allora perché, nonostante questo palese “tradimento” di quel filo rosso della fiducia che lega dalle prime righe autore e lettore – e che deve necessariamente continuare a essere integro fino all’ultima parola – non si può affermare che Pezzoli sia un millantatore e un bugiardo, relegandolo fra gli scrittori di cui non ci si può fidare?
La risposta è semplice e, al contempo, perfettamente s’inquadra nella tecnica stilistica del romanzo di formazione, o meglio in quella parte del romanzo di formazione che riguarda l’infanzia di un personaggio: l’immaginazione di un bambino, il suo modo di vedere il mondo intorno a sé e d’interrogarsi sugli eventi (soprattutto gli eventi ultimi e i casi limite, come appunto la morte) hanno la capacità di modificare strutturalmente le esperienze vissute e i ricordi legati a quelle stesse esperienze. Tornando anche trent’anni dopo sui medesimi fatti vissuti – con la consapevolezza e la Weltanschauung di un adulto che ormai ha imparato a razionalizzare, a darsi risposte sensate e coerenti col sistema-mondo – resta sempre quel senso di inspiegabilità, ineluttabilità e mistero intorno agli eventi che maggiormente hanno segnato l’infanzia.
E allora l’aver “predetto” le morti di persone odiate diventa de facto l’aver “causato” quelle stesse morti. Come si legge in questo passo relativo alla morte accidentale della zia Trude:
Di nuovo io solo con lei e le sue pupille sgranate e la sua faccia viola e l’espressione terrorizzata e attonita, ma pur sempre cattiva, io che avevo provocato la sua morte, io che l’avevo odiata d’un odio profondo, e che non riuscivo a dispiacermene abbastanza, se non per il terrore della condanna eterna della mia anima.
In Quattro soli a motore il rapporto di un bambino con la morte è qualcosa di paradossale, un concetto ancora evanescente, un mix di altri concetti altrettanto volatili (quel posto “magico” chiamato paradiso, lo strano timore associato alla parola “Dio”, l’impossibilità di un’ulteriore esistenza ecc.). Qualcosa d’inspiegabile appunto ma che – lo si percepisce già dalle lacrime dei vivi, dalle parole sbocconcellate e dagli sguardi di terrore dei genitori che provano a dare ragione di qualcosa di ultimo come la morte – non ha e non può mai avere un valore positivo, ma anzi è la negazione di tutto ciò che è. E allora quanto immani devono essere il senso di colpa, di terrore, di disperazione, per un bambino di undici anni, che si accompagnano alla consapevolezza (immaginata, ma non per questo meno reale nella sua mente) di essere stato la causa di ben tre morti, avvenute tutte in rapida successione, di altrettante persone odiate?
Ma le nebbie quasi-oniriche della fantasia e del mistero non avvolgono solo la dipartita improvvisa di questi personaggi. Tutto viene (ri)visto, anni dopo, attraverso gli occhi di un bambino cresciuto. Così la famiglia diventa il luogo della non-sicurezza (laddove la figura del padre – che generalmente funge da guida nell’esistenza – è sempre connessa col dittatore argentino Videla, mentre quella della madre – il simbolo, di solito, della purezza d’animo – è sporcata da un alcolismo imperante), le prime cotte sono vissute con terribile disincanto, il circondario del ristretto paesino di Cuviago è luogo di insidie e di limiti. Villa Kestenholz – la terribile residenza dell’altrettanto terribile padrone di casa (un fantasma ultracentenario nei pensieri del piccolo Corradino), il luogo di finis terrae, il non plus ultra, ciò che è al di là delle colonne d’Ercole – si rivela poi una casa come le altre, che nasconde solo un vecchio prossimo alla morte tormentato dalla perdita dei figli durante la prima guerra mondiale. Così la fantasia di un bambino costruisce un mondo a parte, inesistente, ma comunque vivido e lucido, in grado di condizionare tutto il resto.
Con Quattro soli a motore, Pezzoli riesce in questo suo intento di voler indagare quel periodo storico di un individuo in cui si formano la sua personalità, i suoi incubi ricorrenti, la sua morale – tutti elementi che, variati ed evoluti, torneranno e ritorneranno sempre nella vita. L’infanzia contiene in sé il fascino perverso di un carattere in germe: tutto ciò che in questo momento va storto tende a ripresentarsi, se non curato tempestivamente, nella vita adulta: è questa la terribile realtà che sta dietro a quello che, generalmente, è considerato il periodo più “tranquillo” della vita di una persona ma che, in realtà, nasconde la potenza (in senso aristotelico) del disastro esistenziale. E riuscire a raccontare con questa fermezza di spirito quel periodo è qualcosa che merita decisamente un inchino… nonostante la “truffa” (pur ardita) che vi sta dietro.