Una non secondaria ragione d’interesse sta nel crisma cronologico. The Stonemason è pubblico nel 1994, è stato scritto durante la grandiosa fase romanzesca di McCarthy, quella della ‘Trilogia della frontiera’, che coincide con Cavalli selvaggi (1992), Oltre il confine (1994), Città della pianura (1998). Insomma, siamo, narrativamente, nel pieno della maturità di McCarthy, negli anni del definitivo riconoscimento (attraverso il National Book Award, nel 1992). Insomma, non tradurre The Stonemason mi pare una idiozia.
Da tempo penso che la mia vita, il mio lavoro, sia come quella di un anacoreta nella cella. Il lavoro divora l’uomo e divora la sua vita e credo che l’uomo, alla fine, debba sentirsi giustificato. Se una parte del peso del mondo passa per le sue mani, egli deve immergersi nella realtà di questo mondo per una via superiore a ogni verifica. Una via che non si dissolva facilmente.
Federico Bellini, ricercatore presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha scritto un informatissimo articolo in cui ricostruisce le ragioni dell’insuccesso di The Stonemason, “To Make the World in the Maelstrom of its Undoing: Cormac McCarthy’s The Stonemason” (pubblicato su RSA Journal, 30/2019). “Tra gli studiosi di McCarthy, The Stonemason provoca un certo imbarazzo, eguagliato dalla sceneggiatura scritta per The Counselor.
La ragione principale, come narrato da Edwin T. Arnold in un saggio brillante, è che il testo è nato sotto grandi auspici, ma infine non è sopravvissuto alle attese. Scritto alla fine degli anni Ottanta, il testo di McCarthy ha goduto di una delle sette borse di studio concesse nel 1991 dall’American Express/John F. Kennedy Center Fund for New American Plays, che ha donato 10mila dollari all’autore e 50mila all’Arena Stage di Washington DC per la produzione.
The Stonemason avrebbe dovuto essere messo in scena nel 1992, ma una volta che la produzione teatrale ha compreso i limiti del testo – e McCarthy si è mostrato riluttante a modificarlo –, essa ha preferito restituire la sovvenzione e rinunciare al progetto”. Bellini, che rintraccia alcune ‘fonti’ nell’opera di McCarthy – ad esempio, Il tramonto dell’Occidente di Spengler –, spiega che il problema, oltre che di ordine formale, fu sostanziale. Anzi, politico. “Alcuni attori ritenevano che la sceneggiatura fosse piena di stereotipi razziali e che ‘McCarthy, in quanto scrittore bianco, non fosse in grado di comprendere e drammatizzare la complessità della vita in una famiglia di neri’ (Arnold)”.
Problema folle – come a dire: come fa un uomo a scrivere di un personaggio femminile?, messa in questo modo, uno scrittore potrebbe soltanto, ipoteticamente, scrivere di sé – eppure attualissimo. Nel 1997 fu fatto un secondo tentativo per mettere in scena The Stonemason. Fallito, perché McCarthy non voleva ‘adattare’ il testo a nuove esigenze. Nel 2001, all’Arts Alliance Center di Clear Lake, Texas, il testo va finalmente in scena. Adattato per attore solo. Sostanzialmente, è una brutale riduzione del lavoro teatrale di McCarthy. Su The Stonemason grava una specie di maleficio.
C’è un uomo che parla con i morti, in The Stonemason, che scardina la propria solitudine, che scava un compito nel dolore, che ha un destino di pietra e sceglie il vento, che sa la vorticosa rovina di Dio e cede, si slaccia, impara a pregare, perché la vita al di là è più ricca di questa. Questo spaventa. E questo è Cormac McCarthy.
Atto V, scena XI
Papaw, il nonno di Ben, si materializza dalla nebbia, sul bordo delle lapidi. È nudo.
Ed egli scaturì dalla tenebra, immediatamente, rivelato e rivolto a me, e riuscii a toccarlo, a toccare il suo vecchio cranio nero ed egli era nudo e io riuscii a toccare il cordame dei suoi muscoli sulle spalle raffinate dalla pietra, e i tendini, e le vene degli avambracci, e la piccola pancia e le sottili gambe da vecchio, le ossa lucide, ed era così bello. Era soltanto un uomo, un uomo nudo e solo nell’universo, e non aveva paura e io piangevo di gioia e di tristezza, una tristezza finora sconosciuta, e restai lì, con le lacrime che mi segavano il viso e lui mi sorrideva, mi porgeva le mani. Mani da cui fioriscono tutte le benedizioni. Mani che non mi sono mai stancato di guardare. Sagomate sull’immagine di Dio. Per creare il mondo. Per crearlo ancora e ancora. E crearlo nel vortice della sua rovina. Poi, mentre cominciava a svanire, mi inginocchiai nell’erba, per la prima volta nella mia vita mi misi a pregare. Pregai come l’uomo pregava diecimila anni fa i propri parenti morti, e sapevo che mi avrebbe guidato lungo il profilo dei giorni, e non mi avrebbe abbandonato, non mi avrebbe mai abbandonato.