Di seguito pubblichiamo i primi due capitoli inediti del racconto breve L’anima della musica dello scrittore Fabio Strinati, già autore di raccolte di poesie come Un’allodola ai bordi del pozzo, Pensieri nello scrigno. Nelle spighe di grano è il ritmo, Al di sopra di un uomo.
Ricordo che quel giradischi in camera girava e girava senza sosta; ogni minuto della mia giornata era scandito dalle note che sgorgavano dal tocco leggiadro della puntina sul vinile. Ogni istante della mia esistenza, veniva rovistato da quelle musiche che avevano il compito di tenermi compagnia e di alleggerirmi l’anima che per sventura di un’adolescenza turbinosa era spesso inquieta e a tratti come appassita in uno spazio d’orto senza semi per la terra. Spesso, disteso sul mio letto, guardavo verso il mio pianoforte che proprio di fronte a me, mi fissava con uno stato d’animo perverso; un periodo dove i Notturni di Chopin amavano fondersi con gli assoli di David Gilmour, la musica si apriva a me irrompendo dentro la mia anima ribelle proprio come Like A Rolling Stone di Bob Dylan irruppe nelle nostre menti per indicarci la via verso una libertà pronta a slegare ogni catena, pesante, avvolta sulle nostre deboli coscienze. Quel giradischi girava anche di notte, così come il mio cuore che spesso si separava dal mio torace per inseguire la melodica partitura che aleggiava nella stanza.
Ero solo, inerme alla vita che come un immenso polipo voluttuoso sembrava avvolgermi senza lasciarmi respirare le tante note che mi passavano davanti. Mi sentivo solo ma non lo ero. Il poster di Mark Knopfler che violentava la chitarra accarezzandola mi faceva ogni volta tremare lo sguardo, inducendomi a pensare che la vita è erotismo musicale e visione infinita di una poetica assolutamente non virtuale. Qualche volta, la mia anima sembrava uscire dal corpo per esplorare tutto ciò che accadeva intorno a me, ma faticavo a comprenderne il significato profondo perché il mio intimo si mostrava distratto ai cambiamenti che l’incedere veloce della vita metteva in atto. Vent’anni sono più un luogo che un’età ben precisa: io sapevo benissimo che un treno segue i suoi binari alla perfezione ma anche che una partenza non sempre corrisponde ad un arrivo ben preciso e così, quando queste torture mentali mi assalivano da dentro e si impadronivano di me, rovistavo un po’ tra la mia collezione di vinili con la consapevolezza che qualche oggetto misterioso sarebbe uscito allo scoperto. Ogni volta, tremavo dalla gioia e dallo stupore immaginando che dietro ogni porta poteva celarsi il fantasma elettrico dell’illuminazione oppure la Gioconda dall’aria stupita, ascoltando il suono di“Slowhand“ di Eric Clapton. Nella mia piccola/grande stanza una moltitudine di arti ed anime convivevano insieme e si abbracciavano tra loro formando cerchi di giostre, dando così vita ad interminabili mulinelli di note musicali e di letteratura intrisa di pittura e di storia. Ricordo una giornata di fine novembre che la nebbia sembrava incollata ai vetri e il sole celato da un’eternità sconfinata a ridosso delle alte montagne marroni dell’entroterra marchigiano, e tenevo stretto tra le mani “Making Movies” dei Dire Straits. Quella copertina rosso fuoco sembrava stonare con l’ambiente circostante ma nello stesso dal suo interno un’anima spingeva e si annunciava… come per acquietare la mia.
Una vibrazione mi percosse arroventandomi le mani come se quel vinile iniziasse a bruciare pian piano, dolcemente. “Making Movies” come un Bourne film… non è forse una pellicola la nostra vita? Un film sembra che viva dentro uno schermo di sala o di un televisore ma in realtà, esiste davvero nella vita di tutti i giorni e siamo noi i protagonisti di questo magnifico spartito. La vita è bella anche quando la tristezza germoglia il suo seme, anche quando scrivi il tuo cognome e ti accorgi che sul foglio bianco si legge appena. Come ti chiami conta poco del resto ma anche no in questo mondo barbaro; amavo scriverlo a matita proprio come facevo con le note sul pentagramma, niente di più. Il giradischi, dentro a tutto questo riverbero assordante che come un’onda immensa ed impetuosa arrivava ai confini del mio vuoto colmo di silenzio, suonava Tunnel Of Love ricordandomi come l’amore sia perfetto nella sua imperfezione regolare, come una lancia al cuore penetra a fondo rovistandolo nel punto più lontano ed immortale. Ascoltare ancora oggi l’assolo magistrale di Mark Knopfler mi riporta con la mente a quei periodi. Cercavo di imitarlo con una vecchia chitarra che un mio amico aveva deciso di mandare prematuramente in pensione.
Il risultato era pessimo, ma l’impegno era premiato dal fatto che poi, il mio stato d’animo improvvisamente rinasceva di luce propria, riluceva non solamente dentro la mia stanza carica di umori discordi e dissonanti, ma anche nel resto della casa. Mia madre non era un’appassionata di musica ma sapevo benissimo che quelle note le piacevano così tanto da non dirmi mai di abbassare il volume. D’altronde la mia passione per la musica è opera di mio padre. Faceva girare sul piatto in continuazione “Animals” dei Pink Floyd ed io, bambinetto di sei anni, m’innamorai perdutamente della musica. Dopo tanto, a diciotto anni, ripresi ad ascoltare quel vinile e con stupore mi resi conto di percepirlo con orecchi diversi, con uno stato d’animo completamente nuovo. Già il fatto che mentre ascoltavo canzoni come Dogs leggessi un “La terra desolata” di T.S. Eliot, la diceva lunga sulla mia ostinata ricerca… sempre dettata dal cuore e mai dalla ragione. Ho sempre amato volgere le mie vispe antenne su quei luoghi fumosi, nebbiosi, nebulosi, carichi di penombra e di sentimenti soffusi, seminascosti… affini alla mia anima contorta e complicata. Ho sempre desiderato immergermi dentro strati magici fatti da vite che come la mia, cercano il tuffo nel vuoto, per poi lasciarsi cullare dagli estremi evitando quelle banalità prive di fantasia che come l’edera sugli alberi di quercia, poi seccano e fatalmente cadono a terra. Quegli ambienti sotterranei, dove le luci giocano con le ombre in una rincorsa senza tregua, senza vincitori né vinti che poi, mi hanno aiutato più come scrittore di prosa e versi che come musicista. Ricordo ancora con molta nostalgia l’autunno del 2014 e un altro passaggio del mio cammino. Il mio primo libro di versi… “Pensieri nello scrigno”. Nelle spighe di grano è il ritmo, nasce con il lungo e approfondito incontro del variegato cosmo dei poeti, amanti della solitudine come terapia per una profonda conoscenza di se stessi, scavando nei meandri dell’anima per assorbirne completamente l’essenza, anche quella più occulta, quella che fa più fatica ad emergere, proprio perché in realtà, ci conosciamo molto poco dentro. Io mi conoscevo molto più prima, ai tempi dell’ascolto di Le Gorille di Georges Brassens o Suzanne di Leonard Cohen.
Mi comprendevo meglio perché mi ascoltavo di più e, anche se la solitudine aveva conficcato le sue radici nel mio corpo mi trascuravo meno perché, in ogni caso, la solitudine, pur essendo un sentimento non facile da accettare fa pur sempre parte di noi e vive, soffre, gioisce con noi tutta intera; è una parte della nostra esistenza che se presa nel giusto verso è anche in grado di suscitare forti emozioni. Moltissimi miei versi sono da attribuire a questo particolare sentimento. Insomma, i miei libri, belli o brutti che siano, nascono solo per quel giradischi che girava e girava senza mai fermarsi gira ancora oggi. Non ha mai smesso di suonare, di emozionarmi così intensamente tanto da piangere di felicità, da farmi da spalla nei momenti più duri della mia vita. Poi, come non si può rimanere strabiliati dall’eleganza di un giradischi, dal movimento della puntina che scende dolcemente. In quel sibilo graffiante che ti entra nel cervello è impressa tutta la nostra memoria, i nostri ricordi legati a quegli attimi pregni della nostra esistenza che, inesorabile, ci sfugge pian piano. Forse il disco che più ho esplorato è “Blonde on Blonde” di Bob Dylan. Lo facevo per via di quella voce che sembrava uscire da una caverna piena di lava… e le sue parole pesavano il doppio di quelle di tanti altri cantori. Quella musica, quelle sonorità così mercuriali che provenivano come da un’antichità smemorata e desolata: il risultato di quel sound così lunare non era solo di Dylan ma anche a The Band, un mitico gruppo che ha accompagnato Bob per le sue strade.
La musica è ormai dentro di me da moltissimo tempo. Un incontro quasi casuale che appagava e tuttora appaga costantemente la mia quotidianità. Certo, dall’essere un semplice appassionato di musica, al suonare personalmente uno strumento musicale, il passo da fare non è stato sicuramente indifferente. La musica è per me come un fuoco che si estende senza mai esaurirsi. Un continuo straripare di note che da una sponda all’altra della nostra anima rimbalzano feconde come la precisione di una campana al rintocco della domenica in festa. Approcciarsi ad uno strumento significa mettere la propria anima nelle mani di una rettilinea sperduta ed inviolata. Ricordo che mio padre insisteva molto sul fatto che avrei dovuto imparare a suonare il pianoforte. Lo considerava l’orchestra della musica, uno strumento in grado di espandere la sua capacità espressiva con le sue tinte notturne e i suoi colori arricciati ed impazziti. La musica è al di sopra di ogni arte, praticamente ineguagliabile e imparagonabile a qualsiasi cosa al mondo. Basta prendere in mano il libro delle sonate di Mozart oppure i preludi di Debussy per capire che ci troviamo di fronte ad un’arte capace di imprigionarci l’anima rallegrandola in eterno e per l’eternità infinita e siderale. Basti pensare che fu proprio grazie ad Imagine di John Lennon che mi ritrovai con le mani sul pianoforte. Questa celebre canzone, per me, praticamente perfetta, al pari di un inno nazionale, mi ha sconvolto le meningi come nessun’altra canzone mai scritta prima: quel si bemolle mi era entrato non solo in testa, ma vibrava dentro le mie vene così tanto da indurre il mio cuore a battere al ritmo di quello splendido brano, al punto da farmi raggiungere uno stato di completa catarsi. Un canto più che una melodia: compatta e guerriera, una marcia di germinazione sommersa come in un lago di preistoria tra la boscaglia e una vegetazione distillata. A quel tempo ancora non davo peso alle parole, per cui, i miei orecchi erano completamente sintonizzati sulla sublime scia melodica che sgorgava da quei tasti neri e bianchi, una musica soave che rimbalzava nella mia mente quasi come fosse un grido che veniva ad annunciare l’imminente salvezza del mondo. Oggi la nostra epoca sembra aver preso una strada dove lo sguardo sulla vita sembra essere inchiodato e spento. Io ad esempio, so perfettamente chi ero prima e chi sono oggi; credo di essere la stessa persona, intraprendente, magnetica, un’anima costretta a vivere nel caos o tra le nubi di colline sparpagliate. La solitudine è rimasta, va e viene ma ci rispettiamo come un orologio con le sue lancette: già, il tempo, questo spettro così cauto che tiene il volante della nostra vita e che a volte ci fa sbandare tanto per farci provare l’ebbrezza sotterranea del mistero! Mentre il giradischi ha mantenuto tutto il suo splendore, io mi sono un po’ spento. Me ne sono accorto non molto tempo fa. Avevo tra le mani un vinile di Van Morrison, quel capolavoro che è Astral Weeks. Un disco che mi ha tenuto compagnia, praticamente, per tutto il periodo della mia adolescenza. Note naviganti verso mete indefinite; un ventaglio di musiche quasi planetarie. La voce di “ Van The Man”, inconfondibile con quel suo timbro che lo ha reso uno dei più grandi cantanti del soul bianco, mi appariva come un rullo di tamburi al tramonto quando la sera cerca di avvolgere tutto quel poco che ne resta del giorno senza lasciare spazio a dubbi ed interpretazioni, senza nessuna possibilità di replica. Frequentavo una ragazza, ma nulla di serio. Ricordo che una sera, dopo aver fumato uno spinello di marijuana, mi appartai in un’ alcova di fortuna ma pur sempre onesta e dignitosa. Era una sera di aprile, la temperatura gradevole e il vento praticamente inesistente; d’un tratto, durante il manifestarsi di un abbraccio, mi venne in mente Il Bacio di Hayez. Mi sentivo medievale, raffinato, forte in quel contesto… così perfettamente circondato dal candore di un buio che mi appariva diverso dal solito: un buio per nulla appiccicoso, anzi, sembrava di un colore innaturale, come fosse stato liberato dal suo stesso inchiostro. Per tutto il pomeriggio avevo suonato al pianoforte il Notturno Op.9 No.2 di Chopin. Sicuramente, quella composizione musicale ispirata alla notte aveva messo le sue radici dentro di me in tutti i suoi movimenti. Inoltre, proprio in quel periodo stavo componendo una serenata, perché ricordo che sognavo di poterla cantare un giorno sotto la finestra di una bella ragazza, sotto la luce soffusa di un lampione e poterle donare una parte del mio estro, una parte del mio cuore figlio del palcoscenico. L’amore, questo catalogo infinito, informe di sentimenti che vanno e vengono senza un preavviso. L’amore romantico, erotico; l’amore immortale. Ancora oggi ho il testo di quella serenata: un gruppo di parole in burrasca, un nido di piume inesplose. Ho sempre conservato quei versi, tra l’altro, ormai usurati, sbiaditi dal tempo, ma ogni volta che canto quelle parole, penso alla mia valigia piena di sogni, alle tante illusioni che si nutrono di fertili speranze: il sogno è come una vita parallela che s’intrufola nella nostra mente per rovistare i pensieri della nostra anima nel buio della notte, nel suo momento più vulnerabile.
“Io che vorrei te, che ribolli nel mio calice di vino,
io che non mi arrendo al buio di questa notte
rotonda come il mare; penso al tuo viso, sussurro marino
nel mio grappolo di cuore. Io, che ti vorrei unire
a un silenzio di culla, cullarti tra le onde madreperla
e custodirti nel mio petto che trabocca di sregolate
forme bagnate del mio sangue bruciante!”
Luisa era una ragazza dalla pelle chiara come il tasto di un pianoforte abituato ad eseguire lunghi virtuosismi come in un assolo brilla una luce immediata di mare e di specchio. Capelli rossi che scendevano a cascata proprio sopra le spalle inondate di un lago in versi sospirato, appena sussurrato, un canto negli occhi color mare dal sapore gonfio carico di sale e d’enfasi, come un frutto d’albero il suo sguardo a tratti nascosto, celato da un velo quasi malinconico, così vasto che era in grado di oltrepassare la tua anima e farti vedere il mondo attraverso un binocolo misterioso ed immortale. Amava la musica, ma soprattutto la pittura. Ci conoscemmo grazie a Joni Mitchell; passavamo ore ad ascoltare canzoni come Big Yellow Taxi, California, Carey. Ma la Mitchell, essendo anche una stimata pittrice, riusciva a catturare l’attenzione di Luisa in maniera più preponderante. Avrei voluto scrivere io Big Yellow Taxi, per il suo contenuto ambientalista e per la sua poetica elegante e raffinata. Vivo praticamente la campagna ogni giorno, mi nutro di alberi e di profumi inebrianti. Ho sempre adorato immergermi in queste dimensioni così appartate, dentro questo totale isolamento dove traboccano fiumi di naturalezza. In passato, amavo rincorrere le api e le farfalle; annusavo i fiori e mi divertivo a farmi il bagno nel fiume proprio perché l’acqua, ha sempre avuto per me un significato quasi materno: profonda, ricca di sapori, nuda, trasparente, vitale. Ho sempre amato immergermi: sott’acqua, nell’amore, nei cuori di quelle persone che te lo mostrano nudo in tutta la sua estensione, nella letteratura, nella poesia e soprattutto nella musica. Immergersi ovunque, purché ci sia la possibilità di ricavarne energia costellata da vitamine che straripano da ogni poro; tuffarsi in un manto di neve dopo aver ascoltato Snow di Ludovico Einaudi e immaginare che quei petali gelati scendano leggeri; chiarezza che si mostra agli occhi dell’anima per renderla libera ma vittoriosa.
Fabio Strinati