Breaking News
Home / Cinema / Tra sogno e realtà: Michail Bulgakov tra letteratura e cinema, gli adattamenti cinematografici di Wajda e Bortko
Bulgakov
Michail Bulgakov

Tra sogno e realtà: Michail Bulgakov tra letteratura e cinema, gli adattamenti cinematografici di Wajda e Bortko

Nel panorama delle arti; in particolare, la letteratura e la critica si trovano a dover ridefinire alcuni termini fondamentali che ora si arricchiscono di significato1. Ogni forma artistica dispone di mezzi e modalità espressive diversi e peculiari; fra cinema e letteratura il primato viene per lungo tempo conferito al linguaggio verbale, riducendo il movimento catturato dalla macchina da presa a semplice immagine sussidiaria. A partire dal saggio manifesto Naissance d’une nouvelle avant-garde: la caméra stylo di Alexandre Astruc, nel quale il teorico e regista francese avvicina e sovrappone la macchina da presa alla penna dello scrittore, suggerendo l’ipotesi di un linguaggio comune, la scrittura, di un film o di un romanzo, diviene un aspetto dell’esperienza artistica sul quale riflettere e discutere.L’adattamento o trasposizione filmica di un’opera letteraria offre l’occasione per una analisi comparativa fra cinema e letteratura. La terminologia stessa utilizzata per indicare il passaggio dall’opera letteraria a quella filmica sembra sminuire quest’ultima, che appare  quale riduzione o semplificazione del testo al quale si riferisce. Adattamento, riduzione, trasposizione e traduzione alludono semplicemente al passaggio da un medium a un altro, attraverso l’applicazione di codici e di regole che differiscono fra loro ma che rimandano a un linguaggio comune che funziona da matrice per l’espressione verbale e per l’immagine. Il film e l’opera di riferimento vanno perciò lette rispettando i ruoli del regista e dello scrittore: entrambi creatori di immagini e di mondi. Prendiamo in esame due diverse interpretazioni filmiche del romanzo Il Maestro e Margherita di Michail Afanas’evič Bulgakov; Pilatus und andere (1972) di Andrzej Wajda e Master i Margarita (2005) di Vladimir Vladimirovič Bortko, in modi diametralmente opposti, abbattono i confini spazio temporali della dimensione del racconto e della sua rappresentazione, attraverso la commistione fra linguaggio cinematografico e linguaggio letterario.

Brevi cenni al Master i Margarita di Bulgakov

Mutilata, censurata e lacunosa, la prima versione del Master i Margarita di Bulgakov compare sulla rivista Moskva, tra il 1966 e il 1973. La vita letteraria, i dubbi, le idee, le ricerche e, persino, le opere teatrali di Bulgakov gravitano verso il grande e complesso romanzo sul Diavolo e Dio. Dagli stagni Patriaršie sino a Gerusalemme, dallo scantinato del Maestro alla fortezza di Ponzio Pilato: il volo dello scrittore dilata il tempo, unendo spazi e luoghi lontani, sconosciuti e simili. La struttura del romanzo è complessa e articolata: diviso in due libri, il racconto segue le vicende di Woland, a Mosca, e quelle di Pilato, a Gerusalemme.

Le avventure di Woland durano quattro giorni, quelle di Pilato soltanto uno. Il racconto del passato si inserisce, senza apparente soluzione di continuità, nel presente di Mosca e in quello del narratore stesso, di Bulgakov, attraverso modalità diverse. L’autore costruisce questa storia ad incastro, nella quale convivono luoghi lontani nel tempo e nello spazio, affidando al personaggio di Pilato il ruolo di tramite, di ponte in grado di far avvicinare le diverse sfere temporali e geografiche: l’egemone spezza la dicotomia spazio – tempo, permettendo al lettore di osservare una situazione priva di connotazioni specifiche. Infine, nel romanzo, Pilato diviene anche personaggio posto al confine nel rapporto con la vita e il potere: conteso fra bene e male, fra verità ed incertezza, fra audacia e viltà e fra realtà e possibile al di là. Dopo la pubblicazione e la traduzione, il Master i Margarita diviene un nucleo attorno al quale altri autori, critici e registi lavorano, riflettendo e interpretando, esprimendosi attraverso media diversi, cristallizzando, amplificando o fraintendendo la parola e l’immagine letteraria di Bulgakov.

Il Maestro e Margherita diviene in questo senso testo emblematico, capace di fissare l’idea espressa da molti critici, da Guillén e Genette a Foucault, i quali leggono il testo come un meccanismo infinito di rimandi e di collegamenti, ricco di quelle latenze che Nabokov credeva capaci di rivelarsi continuamente nel tempo. A questo proposito, dunque, le interpretazioni filmiche di Wajda e di Bortko appaiono profondamente diverse fra loro, proprio in virtù del testo di riferimento, il romanzo di Bulgakov che agisce da ipertesto.

Pilatus und andere di Andrzej Wajda

La carriera di Andrzej Wajda appare ricca di opere cinematografiche e di messe in scena teatrali importanti e significative per la storia del cinema polacco e di quello europeo. Generalmente vengono ricordate alcune opere che hanno riscosso successo e visibilità, quali Popiół i diament (Cenere e diamanti, 1958), Danton (1982), Les Possédés (I demoni, 1987) e altre che segnarono, determinandola, la nascita del cinema polacco, si pensi a Pokolonie (Generazione, 1955) e a Kanał (I dannati di Varsavia, 1957). La carriera del regista culmina con il premio alla carriera, conferito nel 2000. In questa occasione, Wajda sceglie di parlare di un suo film poco conosciuto e che trova ancora oggi scarsa diffusione: Pilatus und andere (Pilato e gli altri). Si tratta di un film realizzato nel 1972 per la televisione della Repubblica Federale Tedesca, ispirato al romanzo di Bulgakov. Wajda ricorda spesso l’intenzione di quegli anni di voler lavorare in qualche modo sulla figura di Cristo; in un primo momento l’idea del regista era quella di realizzare un lungometraggio che interpretasse la musica di Krzysztof Penderecki, Pasja według Swiętego Mateusza (La Passione secondo Matteo). In seguito, dopo aver abbandonato il progetto iniziale, Wajda si rivolge ad alcuni sceneggiatori polacchi, per costruire una storia intorno a semplici spunti attinti dalla contemporaneità.

Anche questo progetto non si realizza, ma Wajda viene provvidenzialmente colpito dalla folgore: il romanzo di Bulgakov, «I
thought on could make a film on this subject, I looked for a way to do so, and eventually came to the conclusion that the best text to use as a base was Bulgakov’s story about Pilate in The Master and Margarita>>. Wajda sceglie il testo di Bulgakov, uniformandosi al suo punto di
vista, raccontando uno stralcio della vita di Gesù attraverso il personaggio di Pilato. Sulla storia raccontata da Bulgakov, che rappresenta già una interpretazione, Wajda innesta la propria identità intellettuale e artistica: cattolica, socialista e surrealista. La sequenza prologo che apre il film appare programmatica ed esemplificativa: Wajda intervista un montone che conduce al mattatoio un gregge di pecore, immediatamente macellate. Poco dopo il montone esce dal mattatoio e si appresta a condurre un altro gregge al macello. Immagini cruente di sangue e carne accompagnano la lucida analisi del montone:

Wajda: «Credi che il tuo sia un lavoro morale?» Montone: «In un certo senso potrei essere definito una vittima del sistema. Vedi io ho un dovere da compiere. Io sono rispettato e non voglio ingannare quelli che hanno riposto ogni loro fiducia in me».
Wajda: «Così tu non hai nessun problema di tipo morale a fare il lavoro che fai?» Montone: «Vedi, solo un uomo libero può essere completamente morale. In ogni modo ho i miei dubbi che una faccenda così grossa possa essere immorale» (Pilatus und andere, Dir. Andrzej Wajda, Bundesrepublik Deutschland, 1972). In questo breve frammento appare evidente l’eco delle affermazioni e delle giustificazioni che si rincorrevano per tutta l’Europa all’indomani della seconda guerra mondiale; Wajda, in questo modo, pone già in nuce i termini che incatenano Pilato al ruolo di mesto esecutore del potere.

In un primo momento, Wajda sceglie di girare il film in Marocco, forse anche in parte suggestionato dalla lettura del Vangelo di Matteo
fatta da Pasolini; in seguito si concretizza l’idea di una ambientazione genericamente tedesca. Gli attori scelti dal regista sono alcuni dei suoi
interpreti preferiti: Jan Kreczmar per Pilato, Andrzej Łapicki per Afranio, Wojeciech Pszoniak per Jeshua, Daniel Olbrychski per Matteo
e Jerzy Zelnik per Giuda. Il titolo del film sottolinea l’isolamento di Pilato e del suo universo nei confronti degli altri. Il film si divide in tre parti che prendono il titolo dal personaggio che, di volta in volta, svolge il ruolo di protagonista sulla scena (Pilato, Matteo e Giuda). Wajda ambienta la parte dedicata a Pilato nell’anfiteatro romano di Norimberga e lo stesso procuratore viene posto sul podio dal quale Hitler arringava le folle naziste. La scelta del regista polacco permette una prima attualizzazione del personaggio attraverso un luogo decisamente noto e riconoscibile dallo spettatore (tedesco, polacco ed europeo).

Questa analisi investe direttamente il luogo scelto da Wajda che diviene il fulcro di una metafora visiva e narrativa. L’anfiteatro romano
spicca per la densa realtà storica della quale è testimone e per l’assurdità teatrale della quale lo investe il regista polacco.
L’attualizzazione e la contaminazione continuano attraverso i costumi dei centurioni che si muovono e lavorano insieme a guardie in abiti contemporanei che richiamano, però, nei dettagli, le divise naziste. L’intero film si regge sulla commistione di elementi diversi e fortemente simbolici che mirano, da un lato, a ricostruire l’epoca romana (si pensi ai costumi dei centurioni e a quello indossato da Caifa, che lo caratterizza quale “mongolo traditore”) e, dall’altro, a sottolineare la normalità della vita contemporanea urbana sulla quale la narrazione stessa del film si innesta (si pensi al soprabito di Afranio, che lo rende simile alla polizia segreta tedesca, e all’aereo targato SPQR). Da queste brevi annotazioni appare evidente la lezione dei neorealisti italiani e quella di Pasolini (si pensi a La Ricotta, Italia, 1963, e al già citato Vangelo secondo Matteo, Italia, 1964).

Il personaggio di Pilato appare fortemente connotato, Wajda lo ritrae malato e malfermo, quasi sempre seduto, sdraiato o sorretto dai
centurioni o addirittura trasportato su una sedia a rotelle e la stessa ripresa della camera tende a sottolineare l’atteggiamento, la posizione
di inferiorità del procuratore nei confronti dell’altro. Appare importante sottolineare come questo atteggiamento di inferiorità venga mantenuto anche quando la posizione gerarchica di Pilato appare superiore a quella dell’interlocutore. L’incontro con l’altro viene vissuto dal procuratore sempre in posizione di assoluta impotenza e remissività. Nel corso del film appare però una eccezione emblematica, significativa ed ambigua a tale atteggiamento: si tratta della scena della proclamazione e della condanna dei due ladroni e di Jeshua. In un’atmosfera fortemente teatrale, Pilato, ripreso con camera fissa, viene truccato e sorretto da due giovani in tunica bianca per affacciarsi dall’anfiteatro – ora ancor più connotato dalle insegne romane, dalle immagini delle aquile e dal rosso degli stendardi – e per proclamare con il saluto romano, a una folla anonima e contemporanea ripresa dall’alto, la condanna di Jeshua. Il procuratore viene posto in alto, sulla sommità dell’anfiteatro, pronto a divenire mezzo espressivo del potere e del suo contorto e lineare meccanismo, ma la solennità del momento
viene ridotta all’assurdo: la folla sembra disattenta e semplicemente occupata ad attendere qualcosa. Emerge qui forse in parte l’idea del
cineocchio (kinoglaz) di Dziga Vertov: Wajda utilizza immagini di repertorio, girate in giro per l’Europa, che immortalano folle che attendono l’inizio di uno spettacolo sportivo o di un qualche evento culturale.

La storia prosegue, con inserti surrealisti di notevole effetto, attraverso tappe precise e ineluttabili: Jeshua muore in croce e Pilato
appare schiacciato dal peso del potere che lo rende incapace di reagire. Questa impossibilità di analisi e di reazione viene cristallizzata da Wajda nell’ultimo colloquio fra Afranio e Pilato: il procuratore appare completamente immobile, abbandonato su una rozza sedia a rotelle, impietosamente osservato e quasi schernito dall’alto dal suo collaboratore che rivendica, per sé, autonomia e autocoscienza.
L’interpretazione di Wajda sembra presupporre una curiosa audacia d’intelletto e una florida fantasia dello spettatore, rivelando una ulteriore consonanza d’intenti con Bulgakov che non poteva che sperare in un lettore con queste stesse caratteristiche.

Master i Margarita di Vladimir Vladimirovič Bortko

Vladimir Bortko comincia la propria carriera lavorando su tematiche di stretta attualità e rilevanza collettiva, firmando anche la regia di un’opera di respiro europeo: Afganskij Izlom (Afghan Breakdown, 1991), nella quale Michele Placido (in quegli anni associato al celebre ciclo de La Piovra) interpreta un soldato sovietico impegnato in Afghanistan. Inoltre, si occupa di alcune riduzioni cinematografiche di classici della letteratura russa: Sobač’e serdce (Cuore di cane, 1988) e Idiot (L’idiota, 2003). Infine, la curiosità verso media diversi lo conducono alla televisione e alle grandi serie: Banditskij Peterburg. Advokat (2000) e lo stesso Master i Margarita (2005). Bortko sceglie di lavorare sul romanzo di Bulgakov con l’intento preciso di imporre il serial Master i Margarita quale nuovo colossal per la televisione russa. Durante le riprese e la messa in onda della serie, Bortko rilascia molte interviste nelle quali sottolinea l’importanza e il valore dello sguardo critico di Bulgakov, capace, ancora oggi, di coinvolgere lettori e spettatori. L’operazione del regista russo è la completa trasposizione filmica del romanzo: la serie si divide in dieci puntate (della durata di un’ora circa) che ripetono interamente le parole e le immagini di Bulgakov. La
competizione fra i due diversi media sembra in questo caso ridursi: Bortko dispone di grandi mezzi economici per creare il mondo immaginato da Bulgakov e di un tempo lunghissimo e inimmaginabile per un regista cinematografico. Nelle dieci puntate, Bortko ricrea, descrive e si sofferma su tutti i particolari narrativi del romanzo, seguendo passo passo, pagina dopo pagina, il capolavoro di Bulgakov. Alcuni contributi critici inducono a parlare di vero e proprio fenomeno mediatico per quanto riguarda questa e altre serie. Il recente volume Russian Television Today raccoglie le voci di diverse personalità (ricordo qui soltanto Irina Kaspe e Boris Dubin) che sottolineano come negli ultimi anni si siano moltiplicati, in Russia, eventi di questo genere: grandi produzioni che godono di finanziamenti e di prestigiosi spazi televisivi.

Appare interessante notare come proprio gli autori contemporanei a Bulgakov, dal destino intellettuale e umano simile al suo, siano oggi scelti per questo tipo di operazioni: si pensi a Solženicyn, Pasternak e Il’f. Seguendo ancora queste analisi, si può affermare che dietro la proposta di questi autori ci sia l’intento di insinuare e inserire la riabilitazione della Russia e della sua intelligencija. Inoltre, le storie di questi personaggi letterari e dei loro autori si sviluppano attraverso luoghi conosciuti e familiari allo spettatore, che viene immediatamente coinvolto in questo moto riabilitativo.Il caso del Master i Margarita appare, a questo proposito, esemplificativo: Mosca con la sua architettura, i grandi arbaty, i giardini e i luoghi della cultura campeggia nel romanzo di Bulgakov quale vero e proprio personaggio. Inoltre, le vicissitudini dell’autore continuano a suscitare una sorta di solidale interesse, anche grazie alla scoperta e pubblicazione dei diari di Bulgakov stesso e delle memorie della moglie. Per quel che riguarda l’immagine di Mosca, Bortko investe molto nella ricostruzione e nella resa, anche attraverso materiale di repertorio, a tutto tondo della città russa degli anni Trenta. Bortko si avvale anche dei mezzi e degli strumenti tipici della comunicazione televisiva, utilizzando riprese in bianco e nero e affidandosi a immagini velate e fittizie.

L’utilizzo di luoghi e immagini appare diverso nelle interpretazioni di Wajda e di Bortko, ma assolutamente sovrapponibili risultano le scene del sogno di Pilato, che nella notte inquieta di plenilunio immagina di camminare proprio sulla luna in compagnia di Jeshua, chiacchierando della viltà dell’uomo. Queste immagini, se estrapolate dal loro contesto, appaiono simili e quasi interscambiabili, ma l’utilizzo di alcuni accorgimenti narrativi e tecnici da parte dei due registi le rende uniche e particolari se lette nel contesto dell’intera opera che le racchiude.

Se il regista polacco utilizza il testo di Bulgakov come materiale sul quale innestare le proprie riflessioni filosofiche e morali scaturite anche dai conflitti culturali, sociali e politici dell’Europa dell’ultimo secolo (in questo senso, appare profonda la lettura di Wajda, che sembra percepire nettamente l’acume della satira, del linguaggio e della composizione del romanzo di Bulgakov: opera fortemente critica ed emblematica del contrasto tra uomo e potere al cospetto della verità. Bulgakov utilizza espedienti narrativi, simbolici e letterari, definiti da molti critici propri della “satira menippea”, dando vita ad un mondo immaginario complesso; analogamente, Wajda, non ricalcando letteralmente lo scrittore, ricorre a commistioni linguistiche che vanno dal surrealismo al neorealismo, dal teatro all’uso di materiale di repertorio); l’operazione di Bortko e della televisione russa appare per certi aspetti opposta. La serie Master i Margarita tenta di misurarsi con l’attualità russa e con un passato prossimo ancora ricco di nodi irrisolti, interrogativi e di vite artistiche sospese o dimenticate, come quelle di Bulgakov, Pasternak e Solženicyn. Il regista traduce la parola di Bulgakov in immagine, seguendo ogni pagina con cura e attenzione, lasciando che l’attualità del testo emerga da sola spontaneamente, senza ulteriori attualizzazioni.

 

Fonte: Tra sogno e realtà: Michail Bulgakov tra letteratura e cinema di Sara Tongiani– http://www.between- journal.it/

About Annalina Grasso

Giornalista, social media manager e blogger campana. Laureata in lettere e filologia, master in arte. Amo il cinema, l'arte, la musica, la letteratura, in particolare quella russa, francese e italiana. Collaboro con L'Identità, exlibris e Sharing TV

Check Also

Clint Eastwood

‘Giurato numero 2 ‘, l’ambiguità morale secondo Clint Eastwood

Cinquant'anni dopo che Roland Barthes e Michel Foucault hanno avviato la demolizione del concetto di autore, sottolineandone l'inadeguatezza come fonte di significato, la critica cinematografica oscilla ancora tra approcci devoti e cauti alla questione. I primi, come se fossero improvvisamente liberati dalla repressione del loro entusiasmo, abbracciano con tutto il cuore l'autore come pratica euristica e propongono di usarlo come fonte di analisi esplicativa. I secondi, spesso allineati al pensiero post-strutturalista, cercano di delineare i modi in cui gli autori influenzano la circolazione della loro opera senza cadere nella trappola di difendere la reificazione borghese della loro posizione. Tra questi ci sono stati tentativi di affrontare i contesti storici e istituzionali degli autori, che hanno spesso ridotto la loro funzione a meri partecipanti alla commercializzazione del cinema, insieme a una ripresa di studi che si aggrappano ancora alla capacità dell'autore di mobilitare aspetti dell'identità, ad esempio, attivando fantasie sulla capacità degli spettatori di avere il controllo del significato ed   esprimersi.