Dopo il rovesciamento di Salvador Allende, nel 1973, il regista cileno Raúl Ruiz decise di emigrare a Parigi. Lì, divenne l’equivalente di un ambasciatore cinematografico del realismo magico, importando una gradita dose di fantasia nel cinema francese. Cineasta prolifico, scomparso nel 2011, Ruiz è stato oggetto di una retrospettiva al Film Society del Lincoln Center di New York lo scorso dicembre, nel 2016. Quello che ci interessa di più, com’è d’uso da queste parti, è la sua più grande rivelazione cinematografica: “Il tempo ritrovato”, il sontuoso adattamento del 1999 della più grande opera letteraria francese moderna – e, probabilmente, della storia della letteratura – “Alla ricerca del tempo perduto” di Marcel Proust.
Ruiz distilla il lavoro di 2300 pagine di Proust in sole due ore e cinquanta minuti, incentrando il film sul volume conclusivo, mentre pesca liberamente dalle sei parti che lo precedono. Il film è costruito da una serie di flashback negli ultimi giorni dell’autore ormai sul letto di morte, quando è in lotta con la malattia per completare il volume finale. Lo scrittore (interpretato da André Engel), scavando nella memoria aiutato da una pila di fotografie, evoca visioni di se stesso prima come bambino precoce (Georges Du Fresne) e poi come adulto (Marcello Mazzarella), età in cui frequenta i dorati reami dell’alta società, dissezionandoli e rendendocene indietro una cronaca minuziosa e caustica.
Gli spezzoni d’azione del film – in gran parte ambientati tra il patriottismo pomposo e la decadenza urbana della Prima Guerra Mondiale – fanno da sfondo all’amicizia di Marcel con il Barone de Charlus (John Malkovich), innamorato del giovane musicista Charles Morel (Vincent Perez); alla relazione possessiva e convulsa con Albertine (Chiara Mastroianni); al rapporto divenuto platonico con Gilberte (Emmanuelle Béart) e con il marito, Robert de Saint-Loup (Pascal Greggory), che avrà a sua volta una relazione con Morel; alle confidenze condivise con l’anziana Duchessa di Guermantes (Édith Scob) e con la madre di Gilberte, Odette de Crécy (Catherine Deneuve), il cui salone è il cuore pulsante della vita sociale dello scrittore.
Lavorando su di una sceneggiatura scritta assieme a Gilles Taurand, Ruiz trasforma il processo della memoria dell’autore in un Surrealismo primordiale, sfruttando audaci analogie visive e assonanze nei dialoghi affini alla forma del romanzo. Nel corso del film, Ruiz dà sfogo a una raffica di fantasmagorie e di effetti ardimentosi, tra cui proiezioni sul retro dello schermo che congelano il Proust adulto in una postura affascinante, mentre percorre il ricordo attraverso i mutevoli paesaggi della mente. È drammatizzato l’atto stesso della creazione dell’opera e, di conseguenza, viene messa in evidenza l’influenza su Proust del cinema ai suoi albori. (In una scena sbalorditiva, lo scrittore sembra essere in volo davanti a uno schermo cinematografico, e incontra il suo sé dell’infanzia, che manipola un proiettore cinematografico.)
Ma “Il tempo ritrovato” è anche un trionfo di valori cinematografici classici, e rilancia l’epoca di Proust con un’attenzione ossessiva per i dettagli: la foggia dei baffi e il taglio dei colletti, un cortège di ombrelli uscito da un dipinto di Renoir e gli arredi opulenti, ipnotici e presi in prestito – l’effetto neanche qui è casuale – dai film anni Venti. Molti film di Ruiz, come “Le tre corone del marinaio” (1983) e “La villa dei pirati” (1983), hanno a che fare con i meccanismi del tempo e della memoria; ma è lavorando su Proust che Ruiz sembra fondersi perfettamente con quei concetti (e con il grande autore francese), innalzando il proprio talento artistico a nuove e sublimi vette.