Vi è una certa omogeneità tra le culture scandinave, intorno alla quale è sempre interessante indagare: quando infatti ci si accosta a filosofi come Kierkegaard, a pittori come Munch, a scrittori come Strindberg e Ibsen, si riesce a percepire un sapore comune, anche se spesso non risulta facile darne una definizione precisa. Lo stesso approccio vale per il cinema con la differenza che la diffusione del cinema svedese e danese ha favorito un contatto più approfondito. La Svezia e la Danimarca sono paesi tendezialmente neutrali ai quali è accaduto di essere coinvolti nelle guerre come la Finlandia e la Norvegia, di tale neutralità hanno conservato un certo isolamento che affonda le sue radici in un’orgogliosa introversione e fedeltà alla propria storia e cultura.
Il cinema scandinavo ha tentato più volte, per fattori economici, di esportare film e autori, una cultura propensa allo scavo psicologico, all’introspezione, che hanno lasciato delle tracce evidenti nel cinema tedesco e anche in quello americano, dato che è stata la peccaminosa Hollywood a chiamare alla sua corte attori del calibro di Greta Garbo, Lars Hanson, registi come il raffinato Mauritz Stiller (di origine polacca) e Victor Sjöström. Ma se con il primo regista, il sistema hollywoodiano non seppe stringere una solida alleanza artistica, con il secondo trovò un giusto compromesso tra lo spettacolo e le esigenze di un talento individuale, pensiamo a capolavori come Il carretto fantasma del 1921, che affronta il grande problema libertà-peccato con naturalismo e accenti irrazionalistici, e La lettera rossa del 1926, di cui si contano remake mai all’altezza dell’introvabile originale, censurato dato il tema scabroso, per l’epoca, della pellicola.
La lettera rossa è una storia che deve aver suscitato un’eco profonda nel luterano regista scandinavo: la persecuzione cui del Seicento puritano della caccia alle streghe di Boston, sottopongono l’adultera Hester Prynne, condannandola a portare per sempre, cucita sul petto, la lettera rossa “A” che le ricorda la sua colpa, induce Sjöström ad entrare totalmente nel clima di fanatismo religioso che ha conosciuto in patria e a darne una rappresentazione sorretta dalla mirabile recitazione di una delle più grandi attrici di tutti i tempi, la star griffithiana del muto Lillian Gish, che due anni dopo interpreta nel capolavoro Il vento (1927), una donna che, rimasta sola nella sua baracca, è aggredita da uno sconosciuto nel bel mezzo di una tempesta. L’uomo tenta di usarle violenza ma lei reagisce e lo uccide; il marito della donna torna a casa e aiuta la donna a seppellire il cadavere.
I film successivi di Sjöström, purtroppo, non contano nulla, la sua carriera è ormai terminata; gli resta la recitazione che gli consente di essere grande interprete di alcuni film di Molander e Mattsson. Ma è la sua interpretazione del professor Borg nel capolavoro di Bergman, Il posto delle fragole (1957), a lascerà un’impronta indelebile della storia del cinema.
Il danese Carl Th. Dreyer dà di se una prova di spessore nel 1928 con La passione di Giovanna d’Arco, film sperimentale di grande intensità espressiva, molto giocato sui primi piani. Traendo ispirazione da un libro sui vampiri, il regista realizza l’orrorifico che però rasenta il ridicoli per certe situazioni, Vampyr (1932), un insuccesso che costerà a Dreyer undici anni di inattività presso i produttori. Il fanatismo religioso e la stregoneria danno origine allo smagliante e ambiguo Diers Irae (1943) che riscatta il regista. La giovane moglie di un anziano pastore non riesce ad impedire che la signora cui ha dato asilo sia bruciata viva perché accusata di stregoneria. Amante del figlio che il pastore ha avuto da un precedente matrimonio, la donna rivela al marito la relazione e l’uomo cade al suolo. Accusano anche lei di essere una strega e tutti l’abbandonano, amante compreso. Al processo in chiesa ammette con una luce trionfante negli occhi, di essere una strega. Il regista è allo stesso tempo affascinato e turbato da questa figura e dal suo progressivo scivolare nell’abisso. Dreyer per la vecchia laida prova un sentimento di pietà, mentre per la donna fedifraga sadismo e a tratti indifferenza.
Nel 1954 Dreyer insiste ancora sulla tematica della colpa dell’uomo; ispirandosi ancora una volta a Kierkegaard, dirige Ordet, La parola, Leone d’oro al Festival di Venezia. Si parte dall’assunto che la fede non è dissimile dalla follia e quindi anche la follia è capace di fare miracoli: lo studente di teologia Johannes scappa di casa credendo di essere Gesù, lo sconcerto del padre anziano e autoritario, del fratello ateo Mikkel, della moglie Inger che non ha mai abbandonato la fede e del ragazzo Anders è enorme. Lo cercano invano. La moglie di Mikkel partorisce un figlio morto poco prima di morire a sua volta. La bambina cerca lo zio, convinta che sia davvero Gesù, e lo prega di resuscitare la sua mamma. Ma Johannes, sconvolto dalla morte della cognata, è tornato in sé. E così durante la veglia funebre, Johannes ordina alla morta di uscire dalla bara. La donna riapre gli occhi. Davanti alla fede della bambina Dio non ha potuto non intervenire.
Non è facile comprendere Dreyer, ma come tutti i nordici, quando sono protestanti lo sono rigorosamente. Il problema di Dio è sempre presente. I temi del regista danese, le sue paure, i suoi incubi tradotti dagli scritti filosofici, il suo stile, purtroppo non fanno pià parte delle nostre idee “moderne”. Ma la preziosa pellicola ci dice che non conta conoscere la verità, Johannes può anche non essere folle, Inger è l’immagine della vita inviolabile, tutto incerto ma la figura iridescente della donna insinua un dubbio nello spettatore, pur essendo l’assunto di una disarmante ingenuità. Ma Dreyer non scioglie i dubbi né abbandona la sua congenita misognia.
L’ingenuità compare di nuovo nell’ultimo film del regista, Gertrud (1964). Protagonista una donna, cantante lirica, libera ma insoddisfatta perché nessuno dei suoi uomini, né il marito avvocato futuro ministro, né gli amanti, un pianista e un poeta, né lo psichiatra che le propone di fuggire a Parigi, hanno saputo darle l’amore che lei desidera. Gertrud con la sua estatica immobilità rappresenta l’aspetto più struggente della femminilità, in lei si ravvisa la Nora di Casa di bambola di Ibsen. Ma Dreyer preferisce concentrarsi maggiormente sui personaggi meschini, egoisti e vanesi della vicenda.
Tranne qualche caso, i registi scandinavi più importanti di questo periodo sono gli svedesi anche se uno dei più prolifici di questi è nato in Finlandia: Gustav Molander, il quale esordisce alla fine degli anni Dieci come sceneggiatore di Sjöström e di Stiller; nel 1936 offre alla quasi esordiente Ingrid Bergman l’opportunità per mettere in mostra la sua grazia e il suo romanticismo: Intermezzo, storia dell’amore tra un celebre violinista e della insegnante di pianoforte della figlia, passaporto per Hollywood per la giovane Bergman che tre anni dopo prenderà di nuovo parte a Intermezzo per la regia di Gregory Ratoff accanto a Leslie Howard. Molander rispetta le regole del mercato hollywoodiano ma non rinuncia ad essere se stesso e vede nel dramma di Kai Munk, Ordet un possibile veicolo di successo e nel 1943 lo porta sul grande schermo, anticipando di undici anni Dreyer. Il regista viene premiato due volte alla mostra del cinema di Venezia, nel 1938 per Senza volto, storia di una donna sfigurata (sarà rifatto da Cukor nel 1941 avente per protagonista Joan Crawford), e nel 1942 con il religioso Pentimento. Il successo del cinema di Molander sta nella buona capacità di direzione degli attori, nell’abile controllo della fotografia e nel montaggio scorrevole.
Alf Sjöberg è un altro allievo di Stiller e Sjöström e ci mette un po’ di anni prima di raggiungere un certo successo con film di notevole energia drammatica come A rischio della vita (1939), L’uomo che smarrì se stesso (1941), Strada di ferro (1942), ma è con l’espressionistico Spasimo (1944), presentato al Festival di Cannes che il regista si aggiudica un posto di rilievo nella cinematografia internazionale. Il film, sulla tirannia degli insegnanti, narra una storia di plagio che si svolge in un liceo nell’imminenza degli esami. Sjöberg mette l’accento sui contrasti, sulla recitazione, sugli scontri tra il professore di latino e gli allievi preoccupandosi poco della fragilità della trama. I film del regista mirano allo smascheramento delle ipocrisie sociali e di diffondere i diritti della donna, le figure femminili infatti hanno maggiore rilievo rispetto a quelle maschili. La sensibilità di Sjöberg emerge infatti in film come Iris fiore del nord (1946), tenera storia d’amore tra una ragazza madre e un ufficiale che perderà la vita in un incidente, in Solo una madre (1949), dove una contadina respinge le imposizioni di una comunictà ipocrita e ne La notte del piacere (1951), adattamento del dramma di Strindberg, realizzato con suggestive riprese della natura, grande protagonista di tutti i film svedesi: la contessina Giulia si ribella all’opprimente atmosfera del castello di famiglia, seduce il cocchiere portando scompiglio nei rapporti sociali in un colpo solo. Pagherà con la sua vita il “delitto” compiuto. Il regista ripeterò se stesso con film dimenticabili. Si inserisce nella sua scia il giovane Arne Mattsson con Ha ballato una sola estate (1951) che narra l’amore giovane e struggente tra uno studente e una servetta che sfida l’ipocrisia bigotta della famiglia, morendo, quando ha appena assaporato l’amore, in un incidente stradale.
Bibliografia, F. Di Giammatteo, Storia del cinema.