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American pastoral

Dal libro al film: “American Pastoral”. Una trasposizione impossibile

Guardando American Pastoral, film diretto da Ewan McGregor e uscito nei cinema statunitensi nel 2016, la struggente bellezza della storia raccontata da Philip Roth nell’omonimo romanzo del 1997 si percepisce a tratti e la pellicola colpisce più dal punto di vista emotivo che non artistico.

Non è certo una scelta facile esordire con l’adattamento di American Pastoral, un’opera nota, monumentale, forse troppo dark per un pubblico cinematografico esteso. Adattare un tale colosso della letteratura al linguaggio del cinema significa riuscire a rendere l’atmosfera, le emozioni, le sensazioni, i pensieri e il non detto che aleggia in tutta la storia non usando le parole ma le immagini, gli sguardi degli attori e le loro interpretazioni.

Per iniziare, è interessante soffermarsi sull’ingranaggio che avvia il racconto della gloria e dell’improvvisa caduta dello Svedese : se nel film questo momento non è che poco più di un pretesto narrativo- lo scrittore Nathan Zuckerman incontra Jerry Levov, il fratello minore di Seymour (da poco deceduto) e suo amico di infanzia, alla quarantacinquesima riunione degli ex allievi del liceo di Weequahic a Newark, e da lui apprende la tragedia che sul finire degli anni Sessanta aveva travolto l’eroe della sua infanzia – nel romanzo è un’impalcatura imponente, una solida cornice narrativa in cui Roth, nei panni del narratore Zuckerman, suo alter ego, dice molto di sé e del proprio background socio-culturale.

Già nell’incipit il narratore fornisce le coordinate principali della propria estrazione sociale, e lo fa attraverso un primo inquadramento dello Svedese, campione sportivo simbolo della sua generazione: un ragazzo di qualche anno più grande, come lui ebreo, come lui di Newark, come lui allievo del liceo pubblico a maggioranza ebraica di Weequahic; a poco a poco, poi, la presenza del narratore nella vita dei protagonisti si fa più tangibile: Nathan, detto Skip perché da ragazzino aveva saltato due anni alle elementari, è dapprima l’unico amico, o quasi, di Jerry Levov, grazie al quale aveva sempre mantenuto un contatto, sebbene minimo e indiretto, con lo Svedese, di cui amava spiare i trofei sportivi attraverso la porta semiaperta della camera da letto.

É il protagonista di Pastorale Americana, ricordato da quanti l’avevano conosciuto ai tempi delle sue imprese sportive con quest’appellativo che rimanda all’eccezionalità dell’aspetto del ragazzo e alle sue origini.

“Dei pochi  studenti ebrei di pelle chiara presenti nel nostro liceo pubblico prevalentemente ebraico, nessuno aveva nulla che somigliasse anche lontanamente alla mascella quadrata e all’inespressiva maschera vichinga di questo biondino dagli occhi celesti spuntato nella nostra tribù con il nome di Seymour Irving Levov”.

Inaspettatamente Jerry Levov, ormai un affermato medico-chirurgo che opera a molti chilometri da Newark, fa la sua comparsa nella sala e mette Nathan al corrente prima della morte del fratello, del quale sono appena stati celebrati i funerali, poi della sua vita trasformata in irrimediabile sofferenza dalla figlia ingrata, Merry, nota all’America come la terrorista di Old Rimrock; incredibile ma vero, la terrorista di Old Rimrock che nel ’68 aveva fatto esplodere la bomba nello spaccio cittadino era la figlia di Seymour lo Svedese, l’eroe interamente buono e privo di contraddizioni della sua gioventù. “La figlia che lo sbalza dalla tanto desiderata pastorale americana e lo proietta in tutto ciò che è la sua antitesi e il suo nemico, nel furore, nella violenza e nella disperazione della contropastorale: nell’innata rabbia cieca dell’America” – dice Philip Roth prestando la voce a Nathan, un io di finzione capace tuttavia di fissarne i tratti essenziali.

Quella che si svolge dentro e in memoria della riunione degli ex-allievi del Weequahic è a mio avviso la parte più autoreferenziale del romanzo: non solo perché Roth vi dissemina numerosi riferimenti alle sue origini ebraiche, essendo il liceo pubblico frequentato in gioventù da Skip, Seymour e Jerry Levov un liceo a maggioranza ebraica ( dove tuttavia la matrice ebraica si mescola a un modello di
vita americano sempre più omologante, destinato a espandersi in modo vertiginoso nei decenni a venire rendendo l’essere ebrei un sostrato più o meno remoto ai tempi della riunione, o forse, più precisamente, latente nella vita di ognuno dei vecchi compagni di scuola); anche e soprattutto perché sulla spinta delle confessioni fatte da Jerry a Nathan assistiamo a qualcosa di profondamente
meta-narrativo, al momento stesso della creazione letteraria, messo a nudo davanti al lettore. É utile fare attenzione, qui, al fatto che Jerry rivela solo una minima parte della storia che si snoderà nelle pagine del romanzo; solo le sue linee principali, restituite dalla prospettiva cinica e parziale del fratello dello Svedese.

La parte più consistente di quella storia è invece frutto dell’immaginazione di Nathan, nella misura in cui dietro Nathan c’è Philip Roth. Questo implicito patto col lettore affiora in un passaggio cruciale:

Aveva destato in me, quando ero un ragazzo (come in centinaia di altri ragazzi), la più accesa fantasia di essere un altro che avessi mai avuto. Ma condividere la gloria altrui, anche se solo in sogno, da adulto o da ragazzo, è una cosa impossibile, irrealizzabile sul piano psicologico se non sei uno scrittore, e sul piano estetico se lo sei. 

Da questo momento in poi Roth non abbandona più la terza persona, decide di rimanere sullo sfondo adottando quasi interamente il punto di vista di Seymour Levov mentre ne ripercorre le vicissitudini familiari. La tecnica narrativa é per così dire sospesa fino alla Parte terza del libro , l’ultima, in cui l’illusione ricompare  anche se questa volta non ha alcun rapporto con l’autobiografia: la voce, l’io di Seymour è ora più che mai dirompente e straziante, lo Svedese è ora più che mai un eroe interamente solitario; lo è mentre cerca di rimettere insieme i pezzi apparentemente sconnessi dell’epilogo, il ritrovamento della figlia in stato di indigenza nella periferia di Newark cinque anni dopo l’attentato, la prevaricazione del fratello cui ha rivelato tutto quello stesso pomeriggio, la dolorosa scoperta
dell’adulterio della moglie e del tradimento di Sheila Salzman, che aveva in cura Merry ai tempi della sua balbuzie e l’aveva nascosta dopo l’esplosione dello spaccio di Old Rimrock: tutto nel corso di un’unica giornata che termina con una cena, la quale agisce come epifania all’interno del romanzo; immensa è la sua portata rivelatrice, ora che finalmente Seymour può vedere:

“E la causa di questo recupero della vista è Merry. La figlia ha fatto sì che il padre vedesse. E forse era proprio questo che aveva sempre voluto. Gli ha donato la vista, la capacità di vedere con chiarezza ciò che non potrà mai essere normalizzato, di vedere ciò che non puoi vedere e non vedi e non vuoi vedere finché il tre non sarà aggiunto all’uno per fare quattro” , alludendo al numero di omicidi commessi da Merry.

É ormai  chiaro a Seymour di essere stato privato del futuro:

Aveva visto com’è inverosimile che si possa discendere l’uno dall’altro e com’è inverosimile che davvero si discenda l’uno dall’altro. Nascita, successione, le generazioni, la storia: assolutamente inverosimile.

Prevedibilmente, il film ha uno sviluppo del tutto diverso: l’unica porta sul presente dei sopravvissuti (Jerry e Nathan, le voci narranti) é in questo caso la quarantacinquesima riunione degli ex-allievi del liceo di Weequahic a Newark. Di lì, il racconto della vita di Seymour si snoda senza interruzioni fino alla separazione finale dalla figlia Merry, che vede per l’ultima volta nella periferia di Newark nei panni di una giaina ; il plot ingloba, sommariamente, la fine della Parte prima e tutta la Parte seconda del romanzo.

In modo meno prevedibile il regista decide poi di creare un ricongiungimento tra la cornice narrativa e la storia di Seymour, fino a quel momento tutta declinata al passato: non solo Seymour muore qualche giorno prima dell’incontro con i vecchi compagni di scuola, ma nell’ultima sequenza del film ne vengono anche celebrati i funerali ( ai quali sono presenti Jerry, Nathan, e l’ex-moglie di Seymour, Dawn Dwyer), con un incredibile colpo di scena, il ritorno di Merry tra lo stupore dei presenti; una donna bionda che vediamo solo di spalle mentre cammina fino alla bara di Seymour Levov, regalando così l’ultima inquadratura del film.

L’adattamento cinematografico di Pastorale americana ci introduce quasi subito nel racconto, riducendo al minimo, a puro pretesto, la cornice narrativa; dopo i primi cinque minuti la voce narrante sparisce lasciando spazio alla parabola discendente dei Levov, riprodotta in modo sempre progressivo dal punto di vista cronologico.

Ciò che la pellicola abolisce per ovvie ragioni di carattere tecnico é l’andirivieni dei fatti nell’esistenza mentale di Seymour, l’affollarsi di ricordi tormentosi che ricreano, in ordine sparso, i cinque anni compresi tra lo scoppio della bomba nello spaccio di Old Rimrock e l’ultimo incontro con Merry, tra il ’68 e il ’73; quest’arco temporale è compresso in un periodo dalla lunghezza imprecisata ma molto più breve nel film; gli eventi che portano al ritrovamento di Merry sembrano succedersi uno dopo l’altro.

Sul piano narrativo molti sono i rimaneggiamenti fatti per comprimere la miriade di informazioni che Roth distribuisce in oltre quattrocento pagine e in un arco temporale più esteso: alcune figure rilevanti vengono accorpate (lo psichiatra e il foniatra che avevano in cura Merry da piccola diventano un’unica persona nel film, colei che nasconderà Merry dopo l’attentato); spesso la combinazione tra dialoghi, personaggi e situazioni del romanzo cambia restituendoci gli stessi personaggi calati in situazioni diverse e
protagonisti di dialoghi altrettanto differenti.

Per quanto riguarda le scelte registiche, iniziamo da un bacio mancato: Ewan McGregor modifica il testo di Roth, credo senza troppe titubanze, nel punto in cui Merry undicenne, tornando dal mare col papà, gli chiede di baciarla come lui baciava la mamma ; incredulo e in preda a sentimenti contrastanti, alla fine Seymour concede a Merry quel bacio perché non sopporta di vederla umiliata e affranta dalla sua stessa richiesta; teme che il proprio rifiuto possa acuire la sofferenza testimoniata dalla balbuzie della figlia al momento
stesso della sua richiesta.

Quel bacio, che non dura più di cinque o dieci secondi, all’indomani dell’attentato tormenterà però a lungo Seymour, che imputa forse lo sviluppo anomalo di Merry, la violenza della sua protesta adolescenziale, a quell’episodio, alla richiesta di fronte alla quale aveva ceduto; certo, Seymour sonderà in profondità le possibili ragioni dell’odio di Merry e le troverà in altri
meandri sepolti dal tempo, ma quello del bacio rimarrà per lui uno stigma indelebile.

Nella scelta di opporre un secco rifiuto al desiderio espresso dalla figlia undicenne, il film agisce come una censura: non vuole compromettere l’integrità, l’alta statura morale di Seymour Levov, considerando l’eventualità di quel bacio come un imperdonabile cedimento a pulsioni che non gli appartengono. Rimanendo fedele a questa linea, sul finale invece riabilita, riammette Merry nel consesso civile facendola avanzare verso la bara del padre dopo la celebrazione dei funerali.

Un finale, anche questo, a suo modo rassicurante, un’opera che si chiude nel segno della riconciliazione; un ritorno non contemplato da Philip Roth, che non accennerà più a Merry dopo quel giorno d’estate del 1973 in cui Seymour la ritrova vestita di stracci e ridotta a un mucchio di ossa nella sua stessa Newark; anzi, vi accenna molte pagine prima per bocca di Jerry Levov, ma allora forse Merry è appena morta, a circa quarant’anni, e sicuramente non nel segno della riconciliazione con la sua famiglia.

Il risultato é un punto di vista complessivo, quello dell’eroe solitario, che fa cadere nell’indifferenza tutti gli altri: in fondo ciò che ha sempre dato la misura dell’essere Americani é proprioquest’indifferenza, la convinzione di poter convivere più o meno pacificamente con chiunque, non importa da dove arrivi e cos’abbia fatto per arrivare fin lì. Facendo esplodere la bomba, tuttavia Merry manda in frantumi il buonsenso americano.

Ora che la violenza l’ha messa a nudo, quest’indifferenza non può che assumere segno negativo, e lo fa attraverso lo sguardo illuminato di Seymour. Interessante per la tecnica narrativa, questo epilogo é la prova di quanto l’autore sia presente nel testo attraverso la voce del suo protagonista; è questo un finale ideologico e a suo modo autoreferenziale che si autoesclude da qualsiasi adattamento cinematografico, rendendo la magia delle parole di Philip Roth irriducibile al grande schermo.

About Annalina Grasso

Giornalista, social media manager e blogger campana. Laureata in lettere e filologia, master in arte. Amo il cinema, l'arte, la musica, la letteratura, in particolare quella russa, francese e italiana. Collaboro con L'Identità, exlibris e Sharing TV

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