(23 Marzo 1910, Tokyo -6 Settembre 1998, Setagaya)
Dopo la seconda guerra mondiale, il cinema del Sol Levante approfitta del bienno democratico per avviare una ristrutturazione economica: accanto ai tre colossi Shochiku, Toho e Daiei, sorgono molte società indipendenti. Si tratta di imprese verticali che detengono il monopolio sul mercato della produzione e della distribuzione delle pellicole. Il Giappone nel dopoguerra produce annualmente la bellezza di 500 film, nonostante l’invasione dei film americani.
La conoscenza del cinema nipponico in Occidente risale alla Mostra di Venezia del 1951, anno della proiezione di Rashomon di Akira Kurosawa che si aggiudica il Leone d’oro e l’anno successivo l’Oscar come miglior film straniero. Il film riflette sulla natura dell’uomo e sulla sua predisposizione alla menzogna, guidata: verità e desiderio di giustizia non contano, conta solo la salvaguardia del proprio onore. Ma Kurosawa va oltre, e riflette su un’altra forma di menzogna che è l’immagine del cinema stesso.
All’uscita del film si disse che tutto poteva rappresentare questa storia di un delitto commesso del XII secolo e narrato secondo quattro punti di vista dei personaggi che vi sono stati coinvolti, tranne che la cultura giapponese. E non è un caso che un critico americano abbia detto che “Kurosawa aveva imparato l’arte della fotografia da Fritz Lang, quella della rappresentazione teatrale da Pirandello e che era stato ispirato dalla musica di Ravel. In questo modo il suo cinema svolge una funzione di un meraviglioso intermediario”.
Per il regista nipponico conta la separazione-convivenza tra la tradizione culturale giapponese e l’influenza della cultura occidentale, organizzando l’azione sui serrati ritmi del film d’avventura tipicamente americani. Anche i film successivi del grande regista, pur essendo così giapponesi nello stile, hanno derivazioni europee, si ispirano a Dostoevskij (L’idiota, 1951), a Shakespeare (Il trono di sangue, 1957, è il Macbeth, Ran, 1985, è Re Lear), accogliendo istanze occidentali, nascendo in collaborazione con stranieri (Dersu Uzala del 1975 è una coproduzione nippo-sovietica, Kagemusha, 1980, e Sogni, 1990, sono stati realizzati grazie all’intervento del cinema statunitense).
Kurosawa è un testo vivente di culture diverse, di sogni, di dolori, di visioni che non possono non colpire l’animo umano. A differenza dei suoi connazionali Ozu e Mizogushi, Kurosawa non è discreto, racconta il dolore umano con una tensione visiva al limite del sopportabile con il suo scorrere di immagini esasperate e violente, il delirio di angosce in personaggi vittime di dubbi e tormenti. Si prenda ad esempio il finale allegorico del film Rapsodia in agosto del 1991: è la sequenza che riscatta la banalità della declamazione contro la guerra. La nonna, che vide suo marito morire nell’esplosione atomica di Nagasaki, corre come una pazza nell’uragano che si è scatenato nel bosco. Corre verso Nagasaki, corre verso la morte. Il colore a poco a poco diviene più cupo, non è più il rosso dell’esplosione atomica, ma un grigio-verdastro sempre più simile al nero nel quale annegherà alla fine la nonna.
Kurosava proviene da una famiglia numerosa, il padre discende dai samurai, uno dei fratelli è un intellettuale, profondo conoscitore della cultura occidentale e del cinema. Akira dipinge, si occupa di politica, odia i costumi oppressivi che dominano la società e l’individuo, afflato libertario che introduce in ogni suo film. Ne L’angelo ubriaco del 1948, il medico Matsunaga si scontra con il boss del quartiere e cerca di eliminarlo, ma prima di raggiungerlo sogna di vedere il suo doppio in una bara. Il gangster, tisico, mentre sta per un uccidere il suo rivale, è soffocato da uno sbocco di sangue e il medico lo uccide. Per il regista non c’è possibilità di riscatto nei bassifondi nella violenta e misera città del dopoguerra.
Anche Cane randagio (1949) è ambientato nei bassifondi: il cane randagio del titolo è un piccolo delinquente che ha rubato la pistole ad un poliziotto; accompagnato da un commissario, il poliziotto comincia la ricerca ma il commissario viene ucciso dal ladro. Il poliziotto lo prende. Il piccolo delinquente si è rovinato perché la società in cui viveva non gli ha offerto nulla.
Kurosava è un fine osservatore della realtà che lo circonda, le sue immagini espressionistiche sono un valido documento degli ambienti urbani del Giappone del dopoguerra. Dopo il film in costume Rashomon, il regista incupisce la sua visione pessimistica della vita con i film Hakuchi (ricavato da L’idiota, 1951) e Ikiru (Vivere, 1952). Il secondo film contiene un espediente narrativo molto efficace: mentre il protagonista malato di cancro, vaga angosciato per la città, perché non è riuscito a realizzare il parco giochi di cui si era occupato, un flashforward proietta l’azione nel futuro prossimo, quando l’uomo sarà già morto e all’inaugurazione del parco solo le madri con i loro figli si ricorderanno di lui.
I film in costume (jidaigeki) hanno di nuovo il sopravvento e riscuotono un grande successo anche all’estero: I sette samurai (1954), Il trono di sangue (1957), La fortezza nascosta (1958). I sette samurai, chiamati dai contadini di un villaggio per diferderli dai banditi, si battono in maniera eroica, quattro di loro perdono la vita per salvare il villaggio. Il ritmo è incalzante, gli attori magistrali. Più contratto risulta essere la trasposizione del Macbeth nel ‘500 giapponese: il film dimostra come sia possibile far convivere tradizione giapponese e influssi occidentali. La fortezza nascosta si presenta come una ballata grottesca incentrata sulla fuga di una principessa scortata da un generale e da due contadini per mettere in salvo se stessa e il tesoro della sua famiglia sterminata dai nemici. Tutto finisce per il meglio grazie all’intervento di un deus ex machina.
Nel 1970 Kurosawa gira il suo primo film a colori, tratto da L’idiota, posto in un contesto contemporaneo: in una bidonville impazziscono i muoiono barboni di ogni genere. Pubblico e critica non apprezzano e l’ipersensibile Kurosawa sfiora il suicidio. Si risolleva grazie alla proposta del regista Gerasimov che gli chiede di girare nella taiga siberiana: Dersu Uzala Il piccolo uomo delle grandi poanure (1975), pellicola densa di colori e di luci e di fatti minimi ma fortemente significativi. Kurosawa si riscatta vincendo anche il festival di Mosca e L’Oscar per il miglior film straniero.
Il jidaigeki celebra con Kagemusha (1980) e con Ran (1985) altri due trionfi; il primo è un sunto d’Occidente e d’Oriente che va da Shakespeare a Pirandello, il secondo una spettacolare e violenta rappresentazione della follia umana, a metà tra tragedia greca e dramma shakespeariano alla Re Lear. Si tratta di opere complesse nelle quali il maestro nipponico tocca vette espressive che poche volte il cinema ha raggiunto. Kurosawa è un manierista, ma sa esserlo in maniera sublime.
I film che seguono non offrono grandi novità: Sogni (1990) sfiora nel manierismo pittorico, e Il compleanno (1993) è costruito intorno ai concetti di morte e di ricordo. Certamente non è più il Kurosawa arduo di un tempo, ma conserva i segni della sua grandezza, di chi ha incantato Hollywood e ha ispirato generazioni di cineasti.
Bibliografia: F. Di Giammatteo, Storia del cinema.