Si è spento il 16 marzo scorso a Milano il grande critico e filologo italiano Cesare Segre, curatore della celebre edizione critica de “L’Orlando Furioso”.
Classe 1928, il critico letterario, saggista, semiologo e filologo Cesare Segre, era nato a Verzuolo (Cuneo) da una benestante famiglia israelitica, ha vissuto e ha studiato a Torino, dove si è laureato nel 1950. Ha attraversato gli anni difficili della Seconda Guerra Mondiale e delle persecuzioni razziali. Libero docente di filologia romanza dal 1954, ha poi insegnato presso le Università di Trieste e di Pavia, dove, più tardi, è diventato ordinario della materia. In questo periodo cura l’edizione critica di molti capolavori della letteratura tra i quali “Orlando Furioso secondo l’edizione del 1532 con le varianti delle edizioni del 1516 e 1521”, “La chanson de Roland” , e le “Satire di Ariosto”. Accademico della Crusca, Segre è stato anche visiting professor presso le Università di Manchester, Rio de Janeiro, Harvard,Berkeley,Princeton. Ha collaborato a numerose riviste: tra le quali, <<Studi di filologia italiana>>, <<Cultura neolatina>>, <<L’Approdo letterario>>; è stato direttore, con D’Arco Silvio Avalle Dante Isella e Maria Corti, di <<Strumenti critici>>, condirettore di <<Medioevo romanzo>> e della collana <<Critica e filologia>> dell’editore Feltrinelli.
Inizialmente Segre si era dedicato alla critica stilistica seguendo le orme di Benvenuto Terracini, per poi imporsi come uno dei più autorevoli e brillanti esponenti italiani dello strutturalismo. La sua produzione è molto vasta, frutto di un’ intensa attività di studio: “I segni e la critica”, “Le strutture e il tempo”, “Semiotica filologica”, “Testo e modelli culturali”, “Avviamento all’analisi del testo letterario”, “Fuori del mondo. I modelli nella follia e nelle immagini dell’aldilà” , “Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento”, “Notizie dalla crisi. Dove va la critica letteraria?”, “Per curiosità. Una specie di autobiografia”, “Ritorno alla critica”, “La pelle di San Bartolomeo”, “Discorso e tempo dell’arte”, “Tempo di bilanci. La fine del Novecento” . Proprio poche settimane fa Mondadori gli aveva dedicato un Meridiano, “Opera critica” che raccoglie parte della produzione del critico.
Anche la sua vita privata è stata segnata dalla presenza della filologia: sposò infatti Maria Luisa Meneghetti, docente di filologia romanza proprio come lui.
Cesare Segre è stato un convinto sostenitore dell’importanza di una migliore conoscenza della lingua italiana, e ha considerato inutili tutte quelle campagne didivulgazione dell’inglese, se non si conosce bene prima la lingua madre.
Un esploratore che si è addentrato nei complessi meccanismi della lingua quindi, che si è sempre chiesto dove sarebbe andata a finire la critica letteraria nel saggio “Notizie dalla crisi.Dove va la critica letteraria?” che rivela tutta l’attenzione del critico per l’oggetto in relazione agli insiemi testuali, partendo da maestri come Foucault, Greimas, Barthes. Un sottile senso della contraddizione (e come non potrebbe essere altrimenti) e rigore cartesiano contraddistinguono questo mirabile testo.
Per Segre la filologia è uno strumento validissimo per comprendere la realtà nella sua totalità, totalità che oggi risulta meno cercata e ambita dalla critica. Illuminanti sono state anche le riflessioni del critico piemontese sulle corrispondenze biografiche e di sensibilità profonda tra Giacomo Debenedetti e Marcel Proust, come dimostra anche un articolo del critico su <<Il Corriere della Sera>>, dal titolo “Debenedetti: il mio amico Marcel Proust”.
Cesare Segre, sottile medievista ed appassionato novecentista (leggeva con piacere Primo Levi, Sereni e Gadda), lascia un grande vuoto nella cultura italiana, la sua ironia ed eleganza stilistica ne hanno fatto un teorico di primissimo piano nel panorama critico letterario internazionale; fulminante e veritiero il suo giudizio riguardo al linguaggio contemporaneo usato soprattutto dai politici:
“La nostra classe politica, che in tempi lontani annoverava ottimi parlatori e oratori, tende sempre più ad abbassare il registro, perché pensa di conquistare più facilmente il consenso ponendosi a un livello meno elevato. È la tentazione, strisciante, del populismo. Naturalmente questo implica il degrado anche delle argomentazioni, perché, ai livelli alti, il linguaggio è molto più ricco e duttile”.