Non pochi lettori di Cesare Pavese conoscono quella poesia, il cui primo verso dà, come è noto, il titolo alla raccolta postuma delle ultime sue poesie: <<Verrà la morte e avrà i tuoi occhi-questa morte che ci accompagna-dal mattino alla sera, insonne, -sorda come un vecchio rimorso-o un vizio assurdo>>.
Davide Lajolo, assumendo l’ultimo verso a titolo della biografia, Il vizio assurdo, appunto, o come storia dello scrittore piemontese, una storia intima che si appoggia sui fatti, oltre che su una minuziosa conoscenza dell’opera. Quando Pavese prese coscienza del fatto che la poesia, l’arte e la scrittura non gli avrebbero potuto dare soddisfazioni maggiori di quelle già raggiunte e conquistò invece, proprio sull’orlo della solitudine, l’ancor più amara certezza che gli era negata l’altra, e in un certo senso maggiore ragione di vivere, la donna, la “meraviglia di vivere”, come affermò Lawrence, ecco che il <<vizio assurdo>> lo riattanagliò e non ci fu più via di uscita. Venne la morte in una squallida camera d’albergo. Pavese lasciò il mondo, la vita, la poesia con le tristi parole che diedero angoscia ai suoi amici lettori, ma anche curiosità di sapere, di vederci chiaro in quel tragico segreto:
Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.
Fu più chiaro, sebbene più amaro, ma con di un’acredine più dolorosa, con il suo carissimo amico e conterraneo, diventato poi suo biografo Lajolo:
[…] con la stessa testardaggine. con la stessa stoica volontà delle Langhe, farò il mio viaggio nel regno dei morti…Meno parlerai di questa faccenda con “gente” più te e sarò grato.
Sono le parole dell’ultima lettera scritta all’amico Lojolo la sera del 25 agosto 1950; inviata per espresso e aperta da Lajolo dopo aver appreso la notizia, già di dominio pubblico.
Il libro che Lajolo ha scritto per raccontare la storia di Pavese è molto bello in quanto prima di tutto è un libro storico e rientra nel filone segreto, nella vena calda dei sentimenti genuini di Pavese. Lajolo ha saputo non solo rispettare, ma anche interpretare nel senso più giusto le inquietudini, le insofferenze, le delusioni, le stanchezze morali e perfino le incoerenze e le contraddizioni dello scrittore, dell’uomo e per un certo tempo, del militante di partito. E per quanto Lajolo possa essere portato a guardare con qualche distacco e quasi con un segreto rimprovero alle frequenti inquietudini di Pavese, la sua sollecitudine e partecipazione morale al dramma della vita di Pavese lo salvano dal facile moralismo che la sua fede avrebbe potuto e dovuto dettargli.
Sul doppio versante della partecipazione morale e dell’amicizia, pur senza ombra di agiografismo, oltre che sulla lettura attenta e amorosa, ma sufficientemente distaccata per formulare un concreto e netto giudizio, della narrativa e dell’intera opera di Pavese, che si svolge e articola la narrazione saggistico-biografica di questa storia. Se il saggio denota una conoscenza approfondita, la biografia si giova di qualcosa di ancora più diretto, di immediato: il fatto di essere entrambi, Pavese e Lajolo, originari della stessa terra piemontese, le Langhe, e di essere cresciuti insieme nel calore familiare e umano di uno stesso ambiente di vita e società.
Fonte: G. Titta Rosa, Vita letteraria del Novecento, V. III.