Alle soglie del Novecento, Benedetto Croce si lascia alle spalle, in virtù di uno storicismo vitale che esautora la luttuosità del rimpianto, la passione campanilistica composta da tanti amici e sodali del suo primo tempo di studioso locale e mette in campo il valore che guiderà gran parte delle strategie crociane in fatto di critica militante. Prospettiva, questa, che si rivela discriminante quando si paragonano il giudizio del giovane Gustavo Colline (pseudonimo che usava Croce sulla <<Rassegna Pugliese>> degli anni ’80 dell’800), su Salvatore Di Giacomo o su Imbriani e i ritratti poi forniti di questi autori napoletani nelle Note pubblicate sulla <<Critica>> e poi raccolta sotto il titolo di Letteratura della nuova Italia.
Negli articoli del giovane Croce, Di Giacomo viene investito dall’impressione di una lettura sincronica, alla ricerca di quella che egli indica come “la napoletanità più schietta” e che Imbriani risulta fin troppo legato al contesto culturale cittadino, difendendo la riconoscibile struttura napoletana dello stile e del fraseggio del romanzo, scritto in una lingua tanto più italiana quanto più vivificata dall’apporto del dialetto. Imbriani dunque è un propugnatore del pregio dei dialetti e spinge gli italiano delle altre provincie ad imitarlo, ma in seguito, all’interno del progetto intellettuale della <<Critica>> queste figure saranno sottoposte ad un trattamento opposto. In mezzo c’è il passaggio dalla storia piccola alla storia grande, c’è la polemica contro la critica regionale, c’è la centralità attribuita alla letteratura come momento conoscitivo e fondativo: la letteratura intesa come concentrazione spirituale e ricerca del vero, come recita la prima pagina della <<Critica>>.
In questo senso, se è vero che l’espressione letteratura è espressione della società è una ridondanza di stampo reazionario, la riflessione di Croce, inquieto post-marxiano, si appunta sigli stessi termini di rapporto ma ribaltandoli: contro l’assenza di una società omogenea in Italia, egli risponde:
“Un artista crea la sua società, non aspetta che vi sia (dove?) una società che egli possa copiare”.
Vale la pena ricordare anche il passo centrale del saggio di Croce su D’Annunzio del 1904:
“Si suole affermare che artisti siffatti sono espressione delle epoche di decadenza; ma bisognerebbe affermare invece, più esattamente, che, quando essi sorgono, qualcosa, in qualche animo, deve essere decaduto”.
Insomma, secondo Croce, la letteratura non esprime altro che se stessa; il concetto di tradizione italiana è nella Letteratura della nuova Italia, concetto militante. Tale letteratura ha il vuoto alle sue spalle e proprio Croce ha “inventato” la tradizione, prendendo in esame una delle grandi culture regionali come quella napoletana, per immetterla nel contesto nazionale.
Nel saggio su Di Giacomo del 1903, il mito digiacomiano della solitudine dell’artista trapassa il concetto critico dell’assolutezza poetica di quell’esperienza, dove tutti i materiali dialettali, del contesto napoletano, si fanno testo, in ossequio di quella che Croce definisce “fusione”. Per questo, nota il critico, è impossibile distinguere le pagine dettate dalla vita vissuta <<da quelle in cui Di Giacomo sceglie, costruisce ed inventa>>. A tal proposito risulta importante un altro passo tratto dalla recensione che Croce ha dedicato nel 1911 al saggio del letterato Francesco Gaeta su Di Giacomo:
“Considero come un vanto non piccolo della <<Critica>> l’avere contribuito a rendere giustizia al Di Giacomo, togliendolo dal gruppo dei poeti regionali e ponendolo in quello dei poeti nazionali, o meglio, dei poeti senz’altro”.
La polverizzazione dei generi, in questo caso della poesia dialettale come genere chiuso ed inferiore dell’arte, la difesa della poesia tout court, risulta collegata al progetto di una moderna tradizione italiana. Non è un caso che il quarto tomo della Letteratura della nuova Italia si chiuda con l’Appendice dedicata alla Vita letteraria a Napoli ed è accompagnata da una giustificazione dato che privilegia la cultura napoletana intesa come la più organica e dotata di una pluralità di livelli, per la sua compattezza rispetto al panorama culturale dell’età giolittiana:
“Mi ero proposto di far seguire nella Critica, al mio tentativo di preparare con una serie di saggi la storia della letteratura nella nuova Italia, una storia della cultura nelle varie regioni d’Italia nello stesso periodo; e come idea del lavoro che desideravo avviare, e per indicazione ai miei collaboratori, scrissi io queste pagine, che lumeggiano alcuni aspetti della cultura dell’Italia meridionale”.
Bibliografia: E. Giammattei, Il Racconto e la città, verso il Novecento, in Storia e civiltà della Campania.