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Il nome della rosa

Le menzogne contenute ne ‘Il nome della rosa’, romanzo pseudo-storico, ideologico ed iniziatico

Ha avuto larghissima circolazione in tutto il mondo il film di Jean-Jacques Annaud Il nome della rosa, realizzato – come recitano i titoli di testa – “sul palinsesto del romanzo di Umberto Eco” (1980), che a sua volta – con oltre cinque milioni di copie diffuse in venticinque lingue – viene celebrato tra i libri di autore italiano più venduto di tutti tempi.

Sarebbero sufficienti le dimensioni del fenomeno a rendere opportuno un suo esame critico. La trama de Il nome della rosa è nota più o meno a tutti: nel novembre 1327 si incontrano, presso una imprecisata ma ricca abbazia benedettina dell’Italia settentrionale, per una disputa sulla povertà di Cristo e della Chiesa, una delegazione francescana – di cui fa parte il protagonista, Guglielmo da Baskerville, che è accompagnato dal giovane novizio Adso da Melk – e una legazione pontificia guidata dall’inquisitore domenicano Bernardo Gui. Nell’abbazia sono rifugiati due ex eretici della setta estremista dei dolciniani, che conducono vita sregolata e di notte fanno entrare nel convento una ragazza del vicino villaggio, che finirà per sedurre il giovane Adso. La vita dell’abbazia è sconvolta da una serie di oscuri delitti su cui indagano, con metodi diversi, Guglielmo da Baskerville e Bernardo Gui. L’inquisitore identifica i responsabili nella ragazza, che scambia per una strega, e nei due ex dolciniani. Nel romanzo questi presunti colpevoli vengono condotti da Bernardo Gui verso Avignone, e di loro non si sa più nulla; il film mette invece in scena – presso l’abbazia stessa – la loro condanna e immediata esecuzione sul rogo, seguita da un’improbabile rivolta di contadini – in cui l’inquisitore trova la morte -, che riesce a salvare almeno la ragazza. Nel frattempo Guglielmo da Baskerville – in una notte di tregenda, in cui l’abbazia è distrutta da un incendio – scopre il vero assassino: è il vecchio monaco cieco Jorge, che ha ucciso per impedire che venisse alla luce il perduto libro secondo della Poetica di Aristotele, un’opera pericolosa per la Chiesa perché vi si esalta l’umorismo che “uccide la paura, e senza la paura non ci può essere la fede. Senza la paura del demonio non c’è più la necessità del timore di Dio”.

Il nome della rosa, il “film”: un Medioevo di cartapesta

Il film, molto meno complesso del libro, si concentra su due temi noti alla propaganda anticattolica di tutti i tempi: la corruzione dei monaci e gli orrori dell’Inquisizione. Stanca ripetizione di temi noti: contro monaci e inquisitori avevano tuonato la propaganda protestante e i libelli illuministi; contro inquisitori e monaci si scagliava la letteratura popolare ottocentesca di ispirazione massonica. I benedettini vengono dipinti con una galleria di volti deformati, sadici e volgari; i vizi più inconfessabili si danno convegno nell’abbazia mentre i pezzenti del villaggio si scannano per accaparrarsi gli avanzi gettati via dal monastero. Un quadro grottesco, non compatibile neppure con l’incipiente decadenza del monachesimo nel secolo XIV, e che si prende qualche libertà anche con il romanzo dove – se la ragazza rappresenta un caso isolato di miseria – il cantiniere Remigio ha cura di precisare che il villaggio non è povero – “una famiglia normale laggiù possiede anche cinquanta tavole di terreno” – e liberalmente beneficiato dall’abbazia. Ma il danno agli spettatori più semplici è fatto: chi, uscito dalla proiezione de Il nome della rosa, ricorderà più che proprio i benedettini hanno fatto la nostra Europa, trasmettendo tesori di cultura – ma anche di conoscenze tecniche e agricole – e costruendo nei secoli punti di riferimento per i poveri e per i sapienti?

Sul tema dell’Inquisizione – che dilata in modo abnorme rispetto al romanzo – il film riapre vecchi armadi polverosi, pieni di arnesi dimenticati da qualche decennio: catene, ferri roventi, segrete, cortei notturni con torce ardenti. Ne nasce un quadro in cui nulla è vero.
Bernardo Gui inquisitore ignorante e feroce: menzogna. Procuratore generale del suo ordine “per la sua vasta produzione, specialmente storica, la ricca e minuta informazione e lo studio dell’esattezza, il Gui è considerato uno dei più notevoli storici del primo Trecento, come pure il migliore storico domenicano del medioevo”. Oggi gli specialisti hanno completato lo spoglio dei suoi processi inquisitoriali: su novecentotrenta imputati, dal 1308 al 1323, “se ne trovano soltanto 42 rimessi al braccio secolare”, mentre altri sono condannati a pene minori, spesso di straordinaria mitezza, e centotrentanove assolti. Bernardo Gui impegnato nella caccia alle streghe: menzogna. Presso Bernardo e gli inquisitori suoi contemporanei “è sempre modestissimo il numero degli accusati per pratiche stregoniche”, del resto di competenza dei vescovi e non degli inquisitori, a meno che la stregoneria si presentasse mescolata all’eresia. Anche in epoche successive la caccia alle streghe nascerà nei paesi protestanti, mentre la Chiesa cattolica si sforzerà piuttosto di controllare e di frenare una reazione nata dal popolo e gestita, non sempre con il necessario discernimento, dai tribunali laici dei principi. La tortura generalizzata e indiscriminatamente applicata: menzogna. L’Inquisizione del secolo XIV – a differenza dei tribunali laici del tempo – usa in casi rarissimi la tortura di cui – secondo un decreto del 1311 di Papa Clemente V – l’inquisitore non può, da solo, decidere di servirsi: deve sospendere il procedimento e instaurare “un giudizio speciale, al quale partecipi il vescovo o il suo rappresentante”.

L’inquisitore che decide in poche ore senza difesa né appello, e anzi enuncia il principio che “chiunque contesta il verdetto di un inquisitore è lui stesso un eretico”: menzogna. È l’Inquisizione del secolo XIV che inventa la giuria, consilium che mette l’imputato nella condizione di essere giudicato da un collegio numeroso – spesso di trenta o anche di cinquanta giurati -, dove molti “diventano di conseguenza gli avvocati dell’accusato” ed è l’inquisitore che, davanti alla loro muta, si trova piuttosto in situazione di inferiorità”. Del resto l’imputato ha diritto di difendersi e “può produrre testimoni a discarico”; “può anche ricusare i suoi giudici e, in caso di rifiuto di questa ricusazione, ottenerla mediante un appello a Roma” . La sentenza eseguita subito dopo la condanna, i rei confessi – e perfino il demente Salvatore – bruciati, il rogo organizzato direttamente dal domenicano inquisitore: menzogna. Nel processo inquisitoriale – lungo e complesso – i rei confessi e pentiti possono essere condannati soltanto a pene minori; è il potere laico, il braccio secolare – e mai la Chiesa -, a occuparsi dell’esecuzione delle condanne. Il popolo, infine, che insorge e uccide Bernardo Gui: menzogna. Gli storici, anche i più ostili alla Chiesa, confermano invece la notevole popolarità dell’Inquisizione presso il popolo, che se ne vedeva protetto dalle vessazioni di eretici che – come i catari e i dolciniani – non di rado trascendevano in violenze e in stragi.
Bernardo Gui morì tranquillamente nel suo letto, dopo essere stato nominato vescovo di Túy nel 1323 e poi di Lodève nel 1324.

Il libro: un’apologia della modernità

Il libro di Umberto Eco può essere letto a tre diversi livelli: come romanzo pseudo-storico; come romanzo ideologico a tesi; e come romanzo iniziatico, che contiene anche un senso nascosto. La lettura più facile è quella pseudo-storica del Medioevo di cartapesta, a cui corrisponde il film. Di alcune delle menzogne di fatto della pellicola non sembra direttamente responsabile il romanzo, che contiene però sul Medioevo e sull’Inquisizione le menzogne di principio fondamentali.

L’Inquisizione viene presentata nel romanzo come un tribunale ideologico, inteso a reprimere ogni possibile discussione di una serie di tesi razionalmente insostenibili, che potevano essere imposte solo con la forza delle armi e dei roghi, seminando il terrore attraverso la continua denuncia e perfino la “creazione” di un nemico. “Spesso – osserva Adso – sono gli inquisitori a creare gli eretici”. E un tribunale ideologico non può che condannare sempre e comunque: “Sarai dannato e condannato se confesserai – dice Bernardo Gui al suo imputato -, e sarai dannato e condannato se non confesserai, perché sarai punito come spergiuro!”. Lo spoglio statistico delle sentenze dell’Inquisizione, da cui si ricava la bassa percentuale di condanne, ha ormai dimostrato che questa tesi è falsa. Ma non meno falsa è la sua premessa: l’Inquisizione nasce tardi, verso la fine del Medioevo propriamente detto, non a fronte di eretici immaginari ma come reazione agli eccessi reali e concreti di movimenti come i catari, portatori di un “totalitarismo della morte” apologista del suicidio e dell’omicidio degli oppositori, e – più tardi – come i dolciniani, impegnati a mettere a ferro e a fuoco i villaggi in nome di un’utopia comunistica. Senza escludere deviazioni ed errori tipici di ogni tribunale umano, non si può che concludere che l’Inquisizione dei secoli XIII e XIV “è stata il modo necessario di affrontare un antigene sociale molto pericoloso”. Affermare il contrario significa liquidare un secolo di studi scientifici sull’Inquisizione per tornare al museo degli orrori dei romanzi di appendice del secolo scorso.

Fuorviante è poi, nel romanzo, l’elemento di supporto della trama, cioè il desiderio della Chiesa di occultare un volume che – con l’autorità di Aristotele – avrebbe pericolosamente legittimato, insieme con la commedia, l’umorismo, nemico della fede perché può liberare dalla paura su cui la religione si fonda. La tesi non è minimamente plausibile. I benedettini del Medioevo hanno salvato con amore anche il legato del mondo classico relativo alla commedia, pure spesso moralmente discutibile. Come ha mostrato Hans Urs von Balthasar, il Medioevo – oltre la critica rigida della patristica – ha dato inizio alla rivalutazione del teatro. Nella Summa Theologiae di San Tommaso si afferma, nella questione 168 della Secunda Secundae, che, se l’umorismo vano e malizioso deve essere evitato, l’umorismo di suo costituisce una manifestazione della razionalità umana che può essere perfino virtuosa. Di più: nella mancanza di senso dell’umorismo – “in defectu ludi” – si trova “un qualche peccato”, perché “tutto quanto è contro la ragione nelle cose dell’uomo è vizioso”, e mancare di umorismo significa spesso rivelarsi poco ragionevoli, “molesti agli altri”, “duri et agrestes” secondo l’espressione dello stesso Aristotele. Sono questi i medioevali de Il nome della rosa: cupi, tetri, in perenne quanto morbosa attesa di disastri apocalittici?

Un romanzo ideologico

Il nome della rosa è essenzialmente un romanzo ideologico a tesi, che intende indurre il lettore a scegliere come giusta una delle due posizioni in conflitto nel secolo XIV nella disputa sulla povertà – la Armutsstreit, come la chiama la storiografia tedesca – fra una parte dell’ordine francescano e la curia pontificia di Avignone. Nel film la disputa viene ridotta al semplice quesito se Cristo fosse o meno proprietario delle proprie vesti. Qualche spettatore della pellicola potrà quindi stupirsi nell’apprendere che uno dei massimi storici del diritto viventi, Michel Villey, ha visto nella Armutsstreit “uno degli eventi capitali nella storia della filosofia del diritto”, sia privato che pubblico. In realtà la posta in gioco nella disputa era la nascente ideologia della modernità – la tesi di cui si vuole convincere il lettore de Il nome della rosa – nelle sue tre principali dimensioni, cioè quelle filosofica, giuridica e politica.

a. Ne Il nome della rosa, Guglielmo da Baskerville è la figura abbastanza trasparente – quando parla di filosofia – di un altro Guglielmo francescano, inglese e nemico di Papa Giovanni XXII, Guglielmo di Occam, di cui nel romanzo si dice amico e discepolo. La filosofia di Guglielmo di Occam è il nominalismo relativista secondo cui si conoscono soltanto le realtà individuali – questo cavallo, quest’uomo -, mentre i presunti “universali” – l’uomo, il cavallo – sono semplici segni che servono a connotare – cioè a “notare insieme” – gruppi di realtà individuali, di cui esprimono – peraltro in modo incerto e impreciso – qualche generale rassomiglianza. Il metodo di Guglielmo da Baskerville è certamente quello di Sherlock Holmes; ma già il filosofo marxista Ernst Bloch aveva considerato il metodo “detettivo” del romanzo poliziesco come figura popolare della logica moderna, il cui frutto più maturo sarebbe appunto il marxismo. All’inizio del romanzo, in una scena tipicamente holmesiana, Guglielmo stupisce i suoi interlocutori descrivendo nei più minuti particolari, da qualche tenue traccia, un cavallo che non ha mai visto; quando Adso-Watson gli chiede come ha fatto, risponde con una lezione di occamismo, spiegando che “tra la singolarità della traccia e la mia ignoranza, che assumeva la forma assai diafana di un’idea universale”, ha scelto la traccia singola, senza correre dietro alle idee universali che sono “puri segni”, ed è così pervenuto alla “conoscenza piena”, che è “l’intuizione del singolare”. È grazie alla nuova logica di Occam che Guglielmo da Baskerville risolve gli enigmi dell’abbazia, mentre il tomista Bernardo Gui, che ragiona per universali, segue piste false; ed è con un motto nominalista che il romanzo si chiude: “Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”,La rosa originaria – la presunta essenza della rosa – consiste in un nome, noi non abbiamo che nudi nomi”.

Le conseguenze del nominalismo occamista sono di straordinaria gravità: se si conosce soltanto l’individuale, ogni presunta verità che vada al di là dell’individuale singolare e provvisorio è del tutto malferma; ultimamente, la verità non esiste. Guglielmo da Baskerville non sfugge a questa conclusione; e anzi la esprime nei termini brutali del “pensiero debole” del secolo XX: “Le uniche verità che servono sono strumenti da buttare”, “l’unica verità è imparare a liberarci dalla passione insana per la verità” e perfino “il diavolo è […] la verità che non viene mai presa dal dubbio. Il diavolo è cupo perché sa dove va”. Il primo arcano della modernità svelato dal romanzo di Umberto Eco è il relativismo scettico: fuori dal relativismo vi è solo “la passione insana per la verità”, chi “sa dove va” è un “diavolo” che si esprime nell’intolleranza e nei roghi e che deve essere a ogni costo combattuto.

b. Sul piano del diritto, come ha mostrato in particolare Michel Villey, dal relativismo occamista deriva il positivismo giuridico. Se non esiste la verità, non esistono neppure le verità: non esiste un ordine naturale che possa essere fonte di un diritto naturale, ma fonti del diritto sono soltanto le espressioni positive di una volontà individuale. Sul piano del diritto privato si rovescia la nozione di jus, che non è più id quod iustum est, la “parte” o porzione giusta assegnata a ciascuno secondo equità, ma è – per Guglielmo di Occam – il “diritto soggettivo”, già in senso moderno, il potere concesso da qualche norma positiva di far valere la propria potestà. Questa autentica rivoluzione giuridica nasce proprio dalla disputa sulla povertà dei francescani, i quali affermano di non avere la proprietà ma solo l’uso di tutti i loro beni, come aveva – dicono – lo stesso Gesù Cristo. Ma – afferma Papa Giovanni XXII – la separazione fra proprietà e uso è una finzione, almeno per i beni che i francescani godono in perpetuo e per i beni consumabili come il cibo e le vesti: non si può avere l’uso del pezzo di formaggio che si mangia senza averne anche la proprietà. Se per jus si intende “la parte dei beni che ci viene attribuita secondo giustizia”, il Pontefice ha ragione, e lo stesso san Francesco aveva un diritto di proprietà sul pane che mangiava; per contraddire questa tesi “bisogna cambiare la nozione di jus, darle un significato più ristretto e in qualche modo peggiorativo; bisogna ridurre il diritto a strumento di coercizione materiale, al potere di difendersi davanti al giudice”. È a questo potere di difendere i beni che i francescani – e già Cristo e gli Apostoli – hanno – secondo Occam – rinunciato; ma il diritto di proprietà consiste appunto in questo. Questioni pedanti e superate? Tutt’altro: il mutamento della nozione del diritto di proprietà, e del diritto in genere, comporta “una vera e propria rivoluzione copernicana nella storia della scienza del diritto”.

c. Gli effetti del positivismo giuridico sono particolarmente gravi sul piano del diritto pubblico, dove nasce lo Stato moderno, sovrano assoluto nel senso di solutus ab, “sciolto da” qualunque controllo o vincolo superiore alla sua volontà. Se non esistono verità e valori, non vi è nessun criterio o istanza superiore in base a cui giudicare lo Stato e le sue leggi. E lo Stato certamente non può essere giudicato dalla Chiesa: ne Il nome della rosa Guglielmo da Baskerville e i suoi amici vogliono una “Chiesa povera”, ma non nel senso – come pretende ingenuamente il film – di una Chiesa che rinuncia alle sue ricchezze e le distribuisce ai poveri. Non è questo tipo di riforma ecclesiastica che interessa Guglielmo da Baskerville: “Povera – precisa – non significa tanto possedere o no un palazzo, ma tenere o abbandonare il diritto di legiferare sulle cose terrene”. La “Chiesa povera” dei “teologi imperiali” è una Chiesa confinata in sacrestia, che rinuncia a giudicare la politica e le leggi: “Il dominio temporale e la giurisdizione secolare nulla hanno a che vedere con la chiesa e con la legge di Cristo Gesù”. Poiché poi nel secolo XX gli imperatori, anche se laicisti e miscredenti, non sono più di moda, Guglielmo da Baskerville si premura di dichiarare che – una volta garantita la laicità dello Stato – lui e il suo amico Marsilio da Padova preferirebbero alla monarchia imperiale una “assemblea generale elettiva”, per cui però sfortunatamente “i tempi non sono maturi”. Ma in realtà il problema non consiste tanto nella forma dello Stato quanto nella estensione dei suoi poteri. Lo Stato laico moderno non si emancipa solo da possibili rischi di prevaricazioni clericali; si emancipa da qualunque controllo e limite e pone le premesse del totalitarismo, secondo un processo che è stato colto da autori cattolici ma anche da un maestro del neoliberalismo come Friedrich August von Hayek. Il nome della rosa mette in scena – è il terzo arcano della modernità – il momento sorgivo dello statalismo moderno. Lo statalismo non può che essere contro la Chiesa, perché una Chiesa libera si sentirà libera di criticare l’autorità politica, ed è una sfida che il potere totalitario non può tollerare. Lo afferma – sulla scia di Marsilio da Padova – Guglielmo da Baskerville: “Se il pontefice, i vescovi e i preti non fossero sottomessi al potere mondano e coattivo del principe, l’autorità del principe ne verrebbe inficiata”.

Il nome della rosa: Un romanzo iniziatico

Si sa che Umberto Eco è un grande appassionato di enigmi e di enigmistica, e Il nome della rosa è un romanzo insieme enigmistico ed enigmatico. Enigmistico, perché – come afferma la stessa manchette del volume – contiene una serie di “giochi” da risolvere, fra cui un “giallo di citazioni” non denunciate come tali. Esula dalle mie intenzioni seguire fino in fondo il gioco, anche se alcuni degli enigmi sono interessanti, perché rivelano citazioni occulte di autori fra i più radicalmente anticattolici del nostro secolo come Georges Bataille – a cui si deve la tesi secondo cui il suppliziato sperimenta un’estasi del dolore paragonabile alla mistica – e Roger Peyrefitte, dal cui romanzo Le chiavi di San Pietro è tratta quasi letteralmente la pagina sulle false reliquie. Il romanzo è insieme enigmatico perché alcune tesi possono non emergere a una prima lettura del testo e si rivelano progressivamente: si può quindi parlare anche di romanzo iniziatico.

Quando il retto uso della ragione va perduto, l’errore può manifestarsi come razionalismo o come irrazionalismo. Il proprium della modernità consiste nel fatto che razionalismo e irrazionalismo si manifestano insieme, come due facce della stessa medaglia. Alla “corrente fredda” razionalista e positivista della modernità si accompagna una “corrente calda” che fa della Rivoluzione una religione atea, che si esprime in simboli e miti; così la massoneria, vestale della modernità, coniuga il più estremo razionalismo e il più improbabile irrazionalismo esoterico, il comunismo è insieme materialismo e religione secolarizzata come adorazione filosofica del divenire, e così via. La distinzione fra le due correnti, calda e fredda, è di Ernst Bloch e le citazioni implicite di Bloch ne Il nome della rosa abbondano; sua è la tesi del “filo rosso” che legherebbe le speculazioni di Gioacchino da Fiore, le eresie medioevali, il dipanarsi della modernità e il marxismo. La “corrente calda” della modernità coincide, sostanzialmente, con quella che il cardinale de Lubac ha chiamato “la posterità intellettuale di Gioachino da Fiore”: una posterità che, in diversi modi, secolarizza l’aspirazione mistica del monaco calabrese verso una prossima aurea “età dello Spirito Santo” trasformandola in mito rivoluzionario.

Per intendere il senso occulto de Il nome della rosa può essere utile distinguere fra una posterità speculativa di Gioacchino da Fiore – nel romanzo rappresentata da Ubertino da Casale -, che legge l’età dello Spirito Santo come meta di una storia in progresso animata da Dio, ma vorrebbe mantenere una apertura alla trascendenza e conservarsi ancora cattolica, e una posterità rivoluzionaria, che trascrive il sogno gioachimita dall’eternità escatologica al futuro politico. Nel romanzo di Umberto Eco il gioachimismo speculativo, che vuole ancora salvare la trascendenza, si rivela perdente di fronte al gioachimismo rivoluzionario. È vero: Guglielmo da Baskerville disapprova il gioachimismo utopistico delle bande dolciniane che vogliono imporre il comunismo con il ferro e con il fuoco. Ma il suo giudizio lucido e spietato sulle eresie utopistiche è desunto, quasi letteralmente, da Ernst Bloch. Per raggiungere il suo scopo il gioachimismo rivoluzionario dovrà passare “dall’utopia alla scienza”; ci penserà – e qui Guglielmo mette in scena le profezie di un altro suo maestro, Ruggero Bacone – una “nuova scienza della natura”, una “grande impresa dei dotti per coordinare, attraverso una diversa conoscenza dei processi naturali, i bisogni elementari che costituivano anche il coacervo disordinato, ma a suo modo vero e giusto, delle attese dei semplici. Non manca neppure, in questa verità ultima del romanzo – e della modernità -, l’estremo arcano della gnosi – antica e moderna -, cioè la riduzione di Dio a un’unità originaria indistinta che, in ultimo, coincide con il nulla. Sul finire della storia Adso chiede a Guglielmo: “Che differenza c’è allora tra Dio e il caos primigenio?”. Sostenere che non esiste la verità, e quindi che da Dio non scaturisce un mondo ordinato ma un fascio infinito di possibili, “non equivale a dimostrare che Dio non esiste?”. Guglielmo non lo nega, ma si limita a rispondere ambiguamente: “Come potrebbe un sapiente continuare a comunicare il suo sapere se rispondesse di sì alla tua domanda?”. Qualche pagina dopo Adso conclude “Gott ist ein lautes Nichts”, “Dio è un grande nulla”, con una proposizione che trae dalla mistica renana ma che interpreta inequivocabilmente in senso gnostico, perché afferma di non credere più in un Dio personale ma solo in una “divinità silenziosa e disabitata” come abisso in cui “andrà perduta ogni eguaglianza e ogni disuguaglianza”.

Che cosa può imparare il mondo cattolico dalla grande operazione propagandistica realizzata attraverso Il nome della rosa? Certamente una conferma, se mai ce ne fosse bisogno, del fatto che qualcuno ritiene assolutamente necessario sottoporre le folle a periodici bagni di menzogne sulla civiltà cristiana medioevale, insistendo sempre sugli stessi temi – i monaci, l’Inquisizione -, tanto più oggi a fronte del grave rischio che la nuova medievistica scientifica giunga, sia pure lentamente, a conoscenza del pubblico dei non specialisti e smantelli mitologie a cui certe forze sono straordinariamente attaccate. Il film, “mini-museo antireligioso posto dall’altra parte di una cortina di ferro sempre presente”, costituisce una facile iniziazione offerta a tutti affinché varchino la soglia ed entrino nel mondo del romanzo, dove si svelano gli arcani della modernità nella loro verità ultima, nichilista e gnostica. Lo scopo di Umberto Eco consiste certamente nel temprare “lo scettro a’ regnatori”, esaltando lo Stato laico moderno e la sua ideologia; ma talora – involontariamente, e sta qui l’occasione positiva offerta al mondo cattolico – anche “gli allòr ne sfronda” e “svela di che lacrime grondi e di che sangue” il potere svincolato dalla religione e dalla morale e sostenuto da filosofie relativiste o da miti gnostici. Se ne potrà ricavare che la verità, e una politica che si lasci giudicare dalla verità, fa libero l’uomo, mentre la negazione dell’esistenza di una verità che si imponga anche ai principi lo rende schiavo dei potenti di turno.

 

Fonte:  Contro il nome della rosa, di Massimo Introvigne, sociologo

About Annalina Grasso

Giornalista, social media manager e blogger campana. Laureata in lettere e filologia, master in arte. Amo il cinema, l'arte, la musica, la letteratura, in particolare quella russa, francese e italiana. Collaboro con L'Identità, exlibris e Sharing TV

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