Queste sono alcune pagine tratte dal primo capitolo del libro Il senso del segreto. Benjamin, Bataille, Blanchot, Deleuze e Derrida sulle tracce di Proust, uscito alcuni mesi fa per la casa editrice Mimesis.
Nel 1929, a soli due anni dalla pubblicazione dell’ultimo tomo della Recherche, Walter Benjamin si pone una serie di domande filosofiche intorno allo smisurato romanzo proustiano. Si tratta di un confronto filosofico senza precedenti, se consideriamo che sul finire degli anni venti la fortuna del romanzo è ancora molto lontana, soprattutto in campo filosofico. Proprio in questo periodo, e per più di dieci anni – gli “anni parigini”, anche gli ultimi della sua vita – Benjamin rivolgerà alla Recherche un’attenzione costante, testimoniata dalla frequenza con cui il nome Proust compare negli appunti del grande libro incompiuto del filosofo berlinese, I «Passages» di Parigi.
Il confronto di Benjamin con il romanzo proustiano è segnato da una profonda affinità che riguarda in particolare la questione del tempo e della sua istantanea reversibilità. Nel saggio del 1939 “Di alcuni motivi in Baudelaire”– il cui perno centrale è la questione dell’esperienza estetica nelle condizioni sociali e storico-economiche del XIX secolo – Benjamin riprende i punti salienti di una teoria dell’esperienza basata sulla «memoria involontaria». Secondo il filosofo berlinese, alle condizioni dell’epoca, non poteva esservi più esperienza se non della perdita dell’esperienza stessa. La sua opposizione tra Erlebnis ed Erfahrung si gioca esattamente su questo punto: l’esperienza senza la quale l’arte non potrebbe esistere è sul punto di perdersi, di svanire senza lasciare tracce sulla coscienza soggettiva. Tale esperienza è denominata Erfahrung. La «memoria involontaria» fa parte di questa galassia, dal momento che il suo rapporto con la perdita – nello specifico, con l’oblio – è la sua stessa condizione di possibilità. L’Erlebnis, al contrario, è l’«esperienza vissuta» che la coscienza registra e può richiamare a sé in qualsiasi momento. Essa è l’espressione di un rapporto con il tempo senza punti di rottura, che potremmo simbolizzare come una freccia che si muove a velocità costante verso il futuro.
La pista benjaminiana in cui s’inserisce la questione del segreto è chiaramente quella dell’Erfahrung. In particolare, al centro di questa dimensione, in cui la memoria è inseparabile dall’oblio, troviamo la questione dell’infanzia. Per l’adulto è come se il bambino non avesse la percezione del tempo o, in altre parole, vivesse fuori dal tempo. Ma Proust fu un adulto del tutto particolare, poiché capace di ribaltare la prospettiva ordinaria della relazione al tempo, riconoscendo all’infanzia un primato esperienziale sull’età adulta: «non esistono forse giorni della nostra infanzia che abbiam vissuti tanto pienamente come quelli che abbiam creduto di aver trascorsi senza vivere, in compagnia d’un libro prediletto».
Benjamin riconosce immediatamente il carattere radicale dell’intuizione proustiana sull’infanzia, che sarà sviluppata a pieno regime nella Recherche: «Proust ha affrontato l’impresa con grandiosa coerenza. Egli si è imbattuto così, fin dall’inizio, nel compito elementare di riferire della propria infanzia; e ne ha misurato tutta la difficoltà nell’atto di presentare come effetto del caso se la sua soluzione sia anche solo possibile». Ora, se il compito del narratore della Recherche è elementare, ma al tempo stesso ed esposto al rischio di fallire, occorre compiere uno sforzo di precisione e tentare di definire cosa significhi «riferire della propria infanzia».
«Riferire» o «rendere conto» della propria infanzia significa ricucire una distanza che si presenta come incolmabile per l’adulto. Non si tratta soltanto di riconoscere l’infanzia, di richiamarla alla memoria. L’operazione rivoluzionaria della prosa proustiana è identificata con un tentativo di dare ragione dell’infanzia, senza forzarla sugli schemi della razionalità adulta. Non è un compito da poco e lo stesso Benjamin vi ritorna a più riprese anche nel fascicolo K del libro sui «Passages». È il segreto dell’infanzia ad attirare Proust, come una lampadina accesa farebbe con una falena. Rendere conto dell’infanzia significa allora, essenzialmente, misurare la distanza che separa l’adulto dal bambino che è stato e che adesso non è più. Come si può già immaginare, non esistono strumenti prefabbricati per portare a termine questo compito. Benjamin, in altre parole, riconosce a Proust il merito di aver inventato degli strumenti capaci di misurarsi con questa sfida, che consiste nel riportare alla luce «il passato nascosto fuori dal dominio dell’intelligenza in qualche oggetto materiale che non sospettiamo».
Come Combray per Proust, l’infanzia è per Walter Benjamin una combinazione inestricabile di tempo e di spazi. Si potrebbe abbozzare una definizione transitoria dell’infanzia come luogo in cui l’adulto sente di essere stato, ma a cui non sa tornare, perché ha dimenticato la strada.
“Quel bambino sarei io?”: la domanda risuona nella mente dell’adulto, senza essere pronunciata apertamente, poiché nel ricordo nulla prova che si tratti di un passato effettivamente vissuto e non, per esempio, del materiale di un antico sogno. Il confine mobile fra realtà ed elaborazione onirica è, nel linguaggio di Benjamin, un segnale che qualcosa si sta muovendo al livello dell’Erfahrung. Nonostante l’inquietante familiarità che ha con essa, l’adulto quasi mai riesce a tracciare una mappa della propria infanzia: l’incapacità di orientarsi seguendo le coordinate dell’età adulta è la causa fondamentale dello spaesamento. Il segreto dell’infanzia sfugge al ricordo cosciente poiché la sua immagine è stata «sviluppata nella camera oscura dell’attimo vissuto». La stessa opposizione fra Erfahrung ed Erlebnis – esperienza accumulata ed esperienza vissuta – si innesta proprio sulla questione dello «sviluppo» dell’esperienza. Il vissuto che è stato sottoposto al vaglio della coscienza è riproducibile in qualsiasi momento. Dell’altra esperienza, invece, restano soltanto dei negativi accumulati in un cassetto, di cui molto spesso il soggetto ha perso la chiave. L’Erfahrung si accumula, in definitiva, all’insaputa del soggetto stesso.
In questo senso, l’infanzia è la situazione ideale per scrutare le pieghe di una relazione al tempo che non contempla la successione cronologica tipica dell’età adulta. Il tempo dell’infanzia è infatti scandito dal ritmo vivente delle scoperte e delle cose nascoste. Non è casuale che Benjamin, in una lettera inviata nel maggio 1940 a Theodor Adorno, scriva queste parole: «perché dovrei naconderLe che trovo la radice della mia “teoria dell’esperienza” in un ricordo della mia infanzia?». Questa radice si trova precisamente nella relazione del bambino allo spazio-tempo – relazione in cui la configurazione del segreto emerge in modo evidente. Come il giovane protagonista della Recherche, ogni bambino è affascinato dai contenitori, dalle scatole, dai nascondigli: basterebbe rileggere le pagine proustiane sui pomeriggi di lettura per ricostruire un paesaggio d’infanzia in cui l’alternanza tra il chiuso e l’aperto definisce lo spazio di un segreto che riguarda il tempo e che racchiude un mondo. Questo mondo resterebbe sconosciuto all’adulto se egli non trovasse, per caso, la chiave capace di schiudere il segreto e riportare in vita una scintilla dell’antica relazione al tempo.
Il più grande merito della Recherche consiste, in effetti, nel mostrare come siano soprattutto le circostanze casuali e quotidiane – in definitiva: non ricercate – a schiudere per il soggetto adulto quel “tempo prima del tempo”. I frammenti d’infanzia, residui di una “preistoria” soggettiva, si conservano meglio nei luoghi in cui meno li si cerca. Luoghi non per forza periferici né infrequentati. Talvolta, come ci ha insegnato Poe con La lettera rubata, il luogo migliore per nascondere qualcosa – al limite per nasconderla a se stessi – è di renderla invisibile esponendola sotto gli occhi di tutti. Ogni sforzo volontario per ricostruire questa “preistoria” è costretto a deporre le armi di fronte all’enigma rappresentato dall’infanzia.
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