Uno dei primi aspetti che emerge leggendo diversi romanzi del ‘900 è la bruttezza fisica, (o forse sarebbe meglio parlare di “abbrutimento” dei personaggi) inflitta dai loro autori. Si prenda ad esempio lo scrittore Federigo Tozzi sente impellente il bisogno di esprimere il ricordo, la memoria. Tale bisogno dipende dal fatto che la memoria è il luogo dove si depositano inesorabilmente, paure e angosce che chiedono di essere esorcizzate ed integrate nell’io; chiedono di oggettivare la loro fisionomia dannosa che in questo modo farà perlomeno conoscere il suo potere malefico.
Da questo punto di vista i romanzi di Tozzi sono una lista di offese, incubi e paure che si incarnano in aspetti umani; la memoria delle paure, come ha sottolineato Giacomo Debenedetti, si rapprende in figure che, con il loro solo mostrarsi, fin dai connotati, hanno qualcosa di sinistro, di inquietante, di offensivo, come se la natura e la vita avessero formulato nei tratti di quelle persone un loro desiderio di ferirci, di metterci a disagio, di farci sentire malcapitati in un mondo popolato da gente simile.
Gli esempi di tutto ciò si possono trovare ad apertura di pagina in tutte le opere di Tozzi; prendiamone un esempio; la raccolta di novelle Giovani: in Pigionali (1917) si narra la storia di due anziane vicine di casa che si amano senza saperlo e sanno invece di odiarsi, hanno bisogno l’una dell’altra ma se lo negano reciprocamente. Si tratta di figure patetiche e Tozzi vorrebbe non odiarle e non farle odiare dal lettore. Ma eccone i ritratti: nei connotati e nel modo di esistere, si potrebbe dire che l’autore ne cerchi l’eccezione che rende sgradevole la figura:
“Marta era piccoletta, con gli occhi azzurri e taglienti; vestiva sempre di scuro con una gran rosa chiara sul cappello. Gertrude, invece, aveva una faccia liscia e un’aria tra l’idiota e il sinistro; alta, con gli occhi che bisognava dirli verdi; e i capelli gialli. Ma non era cattiva nemmeno lei”.
Tozzi si danna nell’avvilire i suoi personaggi i quali sono sempre torvi, sinistri messaggeri di vita, quella vita che per Tozzi corrisponde alla classica allegoria del traditore e quanto più la storia diventa autobiografica, è quasi immancabile che i personaggi, anche quelli che a prima vista si presentano amabili e dolci, vittime della vita, svelino qualche aspetto che li imbruttisce.
Nel racconto Un’osteria (1914), certamente autobiografico perché portato su un’episodio di uno di quei chilometrici viaggi in bicicletta, grande passione di Tozzi, Borgese ci ricorda “quale robustezza barbarica di gaudente fosse in lui accanto alla forza di soffrire e quanto fosse la sua bravura davanti ad una strada polverosa da percorrere di corsa o a un fiasco di Chianti da vuotare a gara”.
Questo racconto narra di una locanda a Crespino, in una diluviale sera di novembre, al termine di un giro di dieci giorni per l’Emilia, con un amico impiegato delle Poste, il quale all’indomani deve tornare all’ufficio di Firenze, i due perciò sono partiti da Faenza nonostante il maltempo il quale però obbliga i due viaggiatori a cercare caldo, riparo e cibo. A tavola, si siede accanto a loro, zitta e riservata, la maestrina del villaggio perché non ha altro posto dove sedersi. L’apparizione di questa maestrina “non brutta” (Tozzi non ce la fa proprio a dire che è bella), in quella sera e in quel luogo sperduto, dovrebbe risultare allietante per i due giovani ma la prima cosa che il protagonista nota quando la donna saluta è che “la sua voce ci fece l’effetto di uno che parli dal fondo di una grotta”.
Nella novella Tre giovani (1918), si direbbe che è la mano, dopo il viso, ad attirare l’attenzione di Tozzi, in cerca di un nuovo particolare che sveli la natura malefica della vita: il ritratto del giovane prete Don Vincenzo Ciurini, uno dei giovani che si è avviato allo studio della pittura. Il prete è un artista fallito, nonché malato di cuore, prossimo alla morte come un altro dei tre giovani protagonisti, del resto. Che Tozzi sia qui pervaso da un senso di pietà e decida di perdonare i tratti non piacevoli del personaggio? Viceversa lo scrittore trasforma quella povera vittima in un aguzzino; proprio per la sua bruttezza, sproporzione dei suoi tratti che non possono non colpire negativamente chi li guarda:
“Era un giovine prete venuto da Asciano, magro e ossuto, con gli occhi celesti e talmente limpidi come se fosse sempre contento. Erano già cinque anni che studiava pittura ma non faceva nessun progresso […]. Le punte delle sue dita erano più grosse che all’attaccatura, e tonde. Aveva piedi enormi e pesanti; mentre tutta la sua persona pareva che dovesse essere leggera come un pezzetto di sambuco. Camminava a testa alta e dietro il collo gli si vedevano le pieghe della pelle rasata. Sembrava fatto senza carne: soltanto di pelle e d’ossi”.
Questo non pare un ritratto ma una diffamazione fisica del suo modello, la vendetta del suo autore che si rivolta contro la malattia e il fallimento.
Bibliografia: G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento.