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Italo Calvino e la fiaba italiana

La fiaba, secondo Tommaseo, è un genere letterario affine alla favola, una novella da raccontare a dei ragazzi, dove entri del meraviglioso. La fabula per i romani era sinonimo di dramma e Tommaseo ne estende la sinonimia alle fiabe, come erano intese a Venezia nel Settecento e spiega che esse sono dei “componimenti drammatici fondati nel meraviglioso dei racconti popolari”, e indicando per affinità la parola “ciance”.

Tuttavia Tommaseo non ci fornisce una definizione esatta del termine fiaba che risulta un po’ diversa dal comune significato, di evidente origine dotta che equiparava la fiaba alla fandonia, alle ciance. Come ha scritto Italo Calvino nell’Introduzione al suo volume Fiabe italiane, i “grandi libri di fiabe italiani, nati in anticipo sugli altri”, sono da indicare, oltre che nella Piacevoli notti di Straparola, dove la novella cede il campo alla sua più anziana sorella, la fiaba di meraviglie e di incantesimi, con un ritorno di immaginazione tra gotica e orientale alla Carpaccio e un’incrinatura dialettale allo stampo della proda boccaccesca, nel Pentamerone del napoletano Basile, quel Lo cunto de li cunti che, edito nel 1637, a Napoli, presso Ottavio Beltrano, fu tradotto pochi anni dopo in tedesco e in inglese, diede luogo a monografie e dissertazioni.

Si deve far risalire alla raccolta di Basile il primo interesse europeo per la fiaba; ma un’altra data importante è quella segnata alla fine del Seicento dalla nascita dei sette Contes de ma mere loye, histoires ou contes du temps passé di Perrault. ma come osserva giustamente Calvino, Perrault aveva inventato un genere e ricreato sulla carta un prezioso equivalente di quella semplicità di tono popolare in cui la fiaba si era tramandata di bocca in bocca fin da allora. Un genere quindi di raffinata letteratura più che di invenzione poetica; ma ecco che ancora dopo più di un secolo i fratelli Grimm danno inizio al movimento scientifico sulle novelle popolari con i Kinder-und Hausmarchen.

Nell’ultimo trentennio del ventunesimo secolo si è accumulata una montagna di narrazioni tratte dalla bocca del popolo nei vari dialetti, ma era un patrimonio destinato a fermarsi nelle biblioteche degli specialisti, non a circolare in mezzo al pubblico. Secondo Calvino infatti un Grimm italiano non è mai venuto alla luce. E il genere fiaba, tra gli scrittori e i poeti italiani non ha conosciuto la voga romantica che pervase l’Europa da Tieck a Puskin, ma divenne dominio di autori di libri per bambini, come ad esempio Collodi, Capuana, e qualche altro. La gran raccolta delle fiabe popolari in Italia non lo abbiamo avuto.

Spiega ancora Calvino nel suo libro destinato soprattutto ai ragazzi:

“Le favole italiane sono prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna, soprattutto per la parte di vita che è il farsi di un destino: la giovinezza, dalla nascita che porta in se un auspicio o una condanna , al distacco della casa, alle prove per diventare adulto e poi maturo, per confermarsi come essere umano. E in questo sommario disegno, c’è tutto: dalla persecuzione dell’innocente al suo riscatto, alla fedeltà a un impegno, alla purezza di cuore come virtù basilari che portano alla salvezza e al trionfo, alla bellezza come segno di grazia, l’infinita metamorfosi di ciò che esiste”.

Ma a questo punto Calvino si pone anche un altro problema. Scelto e catalogato l’immenso materiale fiabistico italiano dalle raccolte di Pitré, De Gubernatis, De Nino, Imbriani, Nerucci e altri e stabilito il duplice obiettivo di rappresentare tutti i tipi di fiaba esistenti nei nostri dialetti e in tutte le ragioni, bisogna dare al materiale scelto una comune omogeneità linguistica, tradurre cioè in italiano quelle fiabe che fossero state trascritte  in dialetto e riscrivere in un italiano vivo attuale, senza idiotismi regionali quelle fiabe che erano state presentate, come in Toscana, in una lingua che era in sostanza un dialetto fiorentino, piuttosto che senese, pisano o pistoiese.

Le versioni italiane più ricche di fiabe e dove Calvino ha erborato di più sono quelle siciliane e toscane, pensiamo alle raccolte di Pitré  e alla Sessanta novelle popolari montalesi di Nerucci, che hanno in se un alto valore folkloristico. Ma, a parte queste due regioni, Calvino raccoglie frutti anche nell’area dei dialetti veneti, più largamente in Abruzzo e Calabria, ben poco in Lombardia, in Emilia e nelle Marche, nulla in Umbria. E, analizzate le caratteristiche specifiche della fiaba di ogni regione, Calvino riconosce in esse una forte impronta medievale, illustrate da fantasiose miniature di gusto popolaresco tratte da una raccolta medievale di favole rinvenuta nella Biblioteca universitaria di Bologna. Tra tutte meritano particolare menzione le fiabe L’amore delle tre melagrane e Il drago dalle sette teste.

 

Bibliografia: G. Titta Rosa: Vita letteraria del Novecento, V. III.

 

About Annalina Grasso

Giornalista, social media manager e blogger campana. Laureata in lettere e filologia, master in arte. Amo il cinema, l'arte, la musica, la letteratura, in particolare quella russa, francese e italiana. Collaboro con L'Identità, exlibris e Sharing TV

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