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Kafka o l’assenza dell’attesa: il radicale disincanto dello scrittore cecoslovacco per mettersi al riparo dalla tentazione di ogni illusione

Il radicale disincanto che pervase il pensiero e il sentimento della vita di Kafka non risparmia nemmeno la letteratura, che tuttavia fu alla base della sua vita. Egli scelse di scrivere non come tentativo di sfuggire all’infelicità o all’inadeguatezza, ma per mettersi al riparo dalla tentazione di ogni illusione. Questa negazione, all’origine, dell’attesa è l’angolazione assoluta da cui Bataille sembra guardare Kafka. Dopo aver sottolineato, non senza ironia, che la proposta-interrogativo dei comunisti di bruciare Kafka era stata preceduta dalla volontà o almeno dal desiderio dell’autore, il filosofo Bataille afferma: «Capì che la letteratura gli rifiutava la soddisfazione attesa, e questo egli voleva: ma non cessò di scrivere. Sarebbe anzi impossibile dire che la letteratura lo deluse. Essa non lo deluse, ad ogni modo, in paragone ad altre finalità possibili» (LM, IX, 272; 138). A questo punto Bataille si inoltra nell’atmosfera e nel linguaggio kafkiani per ammettere che forse la letteratura fu per Kafka ciò che ai suoi occhi era stata la Terra Promessa per Mosè. Bataille ci indica, attraverso una pagina dei Diari, che idea avesse Kafka della Terra Promessa a Mosè. Scriveva Kafka: «Il fatto che egli giunga a vedere la Terra Promessa soltanto alla vigilia della morte non è credibile. Questa suprema prospettiva ha un unico senso, quello di rappresentare fino a che punto la vita umana sia un istante imperfetto: imperfetto perché questa specie di vita (l’attesa della Terra Promessa) potrebbe durare indefinitamente senza che ne risultasse mai qualcosa di diverso da un istante. Mosè non raggiunse Canaan non perché la sua vita fu troppo breve, ma perché era la vita di un uomo» (LM, IX, 272;138).

Kafka letto da Bataille: lo stato infantile e il mancato riconoscimento da parte dell’adulto dell’unicità e particolarità del bambino

È strano, che Bataille nel suo saggio La letteratura e il male, così sensibile all’aspetto immanente del sacro, non sottolinei il fatto che Kafka non solo denuncia la vanità di ogni bene e di tutti gli scopi ma, riportando il sacro sulla terra, ne vanifica implicitamente il senso di trascendenza. Se infatti la vanità degli umani beni e degli umani scopi è denunciata anche dalla Bibbia, la Terra Promessa costituisce in essa in ordine di tempo il primo scopo per l’uomo. Qui Kafka sembra dire non soltanto che la vita umana non raggiunge mai gli scopi, per una reiterazione dei desideri o per un’impossibilità a realizzarli, ma piuttosto che gli scopi, quali che siano, anche se realizzati non raggiungono l’uomo, non riempiono che gli istanti della sua vita, mentre la vita di un uomo è continuamente posseduta da una smania che non si ferma all’istante e nemmeno al tempo se, come afferma Bataille, «uno scopo è sempre, senza speranza, nel tempo – come un pesce è nell’acqua – un punto qualunque del moto dell’universo: poiché si tratta di una vita umana» (LM, IX, 272; 138-139). In questa prospettiva Kafka, non senza rifiutare per l’uomo o comunque per se stesso qualunque scopo – persino quello che nella ortodossia ebraica viene suggerito da Dio – si pone su un piano assoluto in cui il tempo relativo è rinnegato totalmente come portatore possibile della nostra realizzazione. Non abbiamo tempo perché non abbiamo tutto il tempo. Non è questo o quello scopo ad essere messo in forse è la vita umana concepita come tale. Se il tempo è limitato «ciò basta a condurre Kafka a considerare lo scopo in se stesso come un’illusione» (LM, IX, 273; 139). Bataille mette qui in risalto le ragioni che, a suo tempo, spinsero il settimanale comunista Action a chiedersi se si dovesse bruciare Kafka; naturalmente era una provocazione, ma l’idea «era logica nello spirito dei comunisti» (LM, IX, 271; 138).

Questa discussione appare ormai lontana e superata ma la riflessione batailliana, col suo riferimento al tempo, apre al lettore di oggi altri problemi che non emergono chiaramente dall’argomentazione batailliana. Bataille non distingue con chiarezza fra la sua posizione e quella di Kafka per ciò che riguarda l’istante. Dello scrittore egli condivide certamente l’antiteleologismo politico – altro è la letteratura e altro è l’azione – ma, se l’istante è l’unico tempo in cui la letteratura trova il suo terreno, Kafka è ben più radicale di Bataille, a differenza del quale non sceglie l’istante ma ci si trova rinchiuso. Proprio dalla lettura di Bataille ricaviamo che Kafka avrebbe voluto per sé tutto il tempo possibile, in mancanza del quale anche lo scrivere non è che la riconferma di una continua insoddisfazione. L’istante non solo vanifica gli scopi al loro sorgere, ma vanifica ogni aspirazione alla felicità: non solo gli scopi sono «senza speranza», tutto è senza speranza. Di questa mancanza di speranza testimoniano le opere di Kafka, a cominciare dalle trappole continue delle sue parole e delle sue frasi alle quali, secondo Bataille, è vano cercare di dare un significato. Leggere Kafka è muoversi in un labirinto che difficilmente può essere decifrato. Il senso che Bataille ne trae è quello di «un atteggiamento del tutto infantile».

Bataille afferma che lo stato infantile non è solo di Kafka: «Per cominciare tutti siamo infantili, in assoluto, senza remore e, bisogna dirlo, nel modo più sorprendente: ed è proprio con il suo infantilismo che l’umanità allo stato nascente manifesta la sua essenza» (LM, IX, 274; 140-141). Queste osservazioni di Bataille, nella loro perentoria generalizzazione, sembrano nient’altro che una riproposizione delle teorie psicanalitiche sul rapporto tra poesia e nevrosi regressiva. Di fatto, Bataille introduce alla lontana e seguendo schemi a lui familiari, ai quali sembra non poter rinunciare, l’essenza dello stato infantile che consiste nel ricondurre il senso suggerito dall’adulto ad un ulteriore senso irriducibile. Nel mondo di delizie dell’infanzia, dice Bataille, «ogni cosa per un momento, lasciava perdere quella ragione di essere che l’aveva fatta cosa (nell’ingranaggio di significati in cui la segue l’adulto» (LM, IX, 274; 141). In Confessioni e immagini Kafka afferma: «Non si farà mai capire – per esempio – ad un ragazzo il quale alla sera è immerso nella lettura di una bella storia avvincente, non si riuscirà mai a fargli capire con una dimostrazione che si riferisca solo a lui che deve interrompere la lettura e andare a letto» (LM, IX, 274; 141) 2. L’aspetto più importante per Kafka emerge come il mancato riconoscimento da parte dell’adulto dell’unicità e particolarità del bambino; le regole dell’adulto si fondano sulla generalizzazione nella quale il bambino non può assolutamente entrare. Per Kafka, inoltre, l’ignoranza della sua particolarità si traduce in un senso di condanna e quindi di colpa: il rimprovero si dilata fino all’autocensura. Lo scrittore prosegue: «In tutto ciò l’importante è che la condanna inflitta alla mia particolarità di leggere a lungo, io poi la estendevo di mia iniziativa alla mia particolarità segreta di trascurare i miei doveri e, in conseguenza, giungevo al risultato più deprimente» (LM, IX, 274; 141) 3. Si delinea già una situazione senza via d’uscita: la costrizione e il divieto fanno sì che il bambino detesti «l’oppressore» o, alternativamente, detesti se stesso costretto a tener nascosta come una colpa la sua particolarità che, del resto, considera insignificante e senza valore alcuno perché tale appare agli occhi degli altri. Scrive Kafka: «Se io tenevo nascosta una delle mie particolarità, allora in conseguenza detestavo me stesso e il mio destino, allora mi consideravo malvagio o condannato» (LM, IX, 274; 141) 4.

Nell’ottica di Bataille assume particolare rilievo l’elemento dell’insignificanza che è sottilmente legata alla colpa: l’attività del bambino, la lettura, essenzialmente è non degna d’essere, inutile perdita di tempo e perciò non innocua, ma colpevole. Se l’adulto non ha tempo abbastanza, il bambino non ha il senso del tempo che spreca  Bataille cita un passo dei Diari in cui Kafka descrive drammaticamente questa scoperta confusa nell’animo del bambino che è stato e che si ripropone con chiarezza per il giovane che scrive: «Restai seduto e mi chinai come prima su quel foglio che dunque non serviva a nulla…, ma in realtà ero stato espulso d’un colpo dalla società» (LM, IX, 275; 142). Ma Kafka voleva scrivere, voleva, secondo Bataille, «restare nella infantilità del sogno», il sogno che antepone il presente e l’istante all’adoperarsi per l’avvenire; voleva comunque anche l’approvazione del padre, «l’uomo dell’autorità» che rappresenta «la società degli adulti, la sola indistruttibile» (LM, IX, 275; 142). Proprio la ricerca di approvazione e di comprensione costituisce il grande conflitto di Kafka: da essa deriva la sua indistruttibile infelicità. La particolarità del suo essere si identifica nel destino all’infelicità da cui egli non può scindere se stesso. Bataille parla di confusione: «Nel carattere di Kafka è strano il suo profondo desiderio che il padre lo comprendesse e accettasse la sua attività “infantile”, la lettura e più tardi la letteratura, che il padre non lo respingesse fuori dalla società degli adulti, la sola indistruttibile; questo desiderio egli confuse fin dall’infanzia con la particolarità del suo essere» (LM, IX, 275; 142). Kafka in altri termini ha ritenuto per sé essenziale allo stesso modo la vocazione alla scrittura e alla elusione della utilità e l’approvazione paterna, quella del mondo «dell’azione efficace» alla quale generalmente gli adulti si uniformano. «In modo puerile Kafka viveva come ogni scrittore autentico sotto l’opposta priorità del desiderio attuale […]. Si sentì sempre escluso dalla società che lo utilizzava ma considerava di nessun valore – come una forma di puerilità – ciò che nel suo profondo egli era con una passione esclusiva» (LM, IX, 275; 142).

Non c’è letteratura senza colpa: Kafka e la comunità ebraica

Come lo stesso Bataille ha sottolineato, anche Kafka, quando si guarda con gli occhi degli altri, considera insignificante la sua scrittura: se essa non è uno scopo nel senso dell’utile non è però nemmeno un fine di realizzazione; anche ai suoi stessi occhi Kafka è colpevole: non di non vivere e lavorare con lo stesso spirito degli altri, ma di non tentare come tutti la via della felicità. Le lettere a Milena ne sono una dimostrazione: come pretendere di rendere qualcuno felice se manchiamo di questa aspirazione? Kafka indietreggia di fronte a tutte le promesse. Bataille stesso lo ha già affermato: «Capì che la letteratura gli rifiutava la soddisfazione attesa» (LM, IX, 272; 138); più esattamente: dalla letteratura non poteva aspettarsi soddisfazioni. Poteva aspettarsi solo la conferma della sua sofferenza e della sua colpa. Se, per riprendere una formula batailliana, non c’è letteratura senza colpa, Kafka non solo è colpevole di scrivere, ma scrive perché è colpevole e si sente tale; perché, come Bataille sottolinea, la legge, com’è consono all’ebraismo (anche se Bataille non lo dice), viene prima di tutto. Viene prima delle passioni e dei desideri personali ai quali Kafka non rinuncia, ma che ritiene, come gli altri, fuori legge. Di più: non si tratta di una legge esteriore ma di una legge che egli stesso ha interiorizzato. In fondo la ricerca dell’approvazione del padre è il desiderio di rientrare nell’ambito della legge. A dire il vero Bataille sembra sottovalutare l’appartenenza di Kafka all’ebraismo culturale e morale, per farne invece solo una questione di appartenenza a una comunità al cui centro è la figura paterna. «Nel mondo decrepito della feudalità austriaca – scrive – la sola società che avrebbe potuto riconoscere il giovane israelita era l’ambiente paterno degli uomini d’affari, che escludeva gli inganni di uno snobismo invaghito di letteratura. L’ambiente in cui la potenza del padre di Franz si affermava senza contrasti esprimeva la dura rivalità del lavoro, che nulla concede al capricci, e tollera nell’infanzia una forma di puerilità, che esso pure ama nei suoi limiti, ma condanna nel principio» (LM, IX, 277; 144). Più semplicemente, la laboriosa e produttiva comunità ebraica, come ogni comunità del resto, ama e tollera l’infanzia nei bambini, non tollera l’infantilismo negli adulti.

Lo scritto su Kafka costituisce nell’ambito de La Letteratura e il male come l’estremizzazione della visione dell’infanzia già aperta dal saggio su Emily Brontë: i bambini diventati adulti conservano o ritrovano dell’infanzia la libertà noncurante del futuro; Kafka rifiuta del mondo adulto le responsabilità che sarebbero ostacolo alla sua scrittura. Se entrambi i mondi sono illuminati dalla sovranità è indubitabile che la landa di Wuthering Heights è scenario di spontaneità assoluta, laddove la stanza e la casa di Kafka sono luogo fisico e spirituale di costrizione e angustia. Ma Kafka più di ogni altra cosa voleva scrivere e non perché fosse l’unica cosa di cui era capace – quando lavorava lo faceva anche bene –, ma perché della scrittura aveva la vocazione. L’attività dello scrivere è considerata inutile e puerile, in quanto non produttiva, nella comunità a cui appartiene, ed egli accetta e subisce la puerilità che gli viene attribuita, pur di poter sostituire con la parola scritta (si può scrivere anche se nessuno ascolta) la parola che il padre in primo luogo non aveva voluto sentire. Questo il significato della puerilità kafkiana, per la quale Bataille usa, consapevolmente o meno, lo stesso schema argomentativo di cui Sartre si era servito a proposito di Baudelaire e del suo atteggiamento di fronte al male. Kafka ha affermato più volte di voler evadere dalla sfera paterna. Ma secondo Bataille «non dobbiamo ingannarci su questo punto: Kafka non volle mai evadere veramente. Egli voleva piuttosto vivere nella sfera come un escluso. Sapeva in partenza di essere estromesso. Non si può dire che egli fosse estromesso dagli altri, non si può dire che egli si estromettesse da sé. Si comportava semplicemente in modo da rendersi insopportabile all’ambiente dell’attività utilitaria, industriale e commerciale; voleva restare nell’infantilità del sogno» (LM, IX, 276; 143).

Insopportabile, si sa, perché, diversamente che per la comunità all’interno della quale viveva, il lavoro non era la sua vita. In nome dell’adattamento al lavoro Kafka avrebbe voluto il riconoscimento dall’autorità paterna, il riconoscimento alla legittimità di vivere non di lavoro, ma fondamentalmente ed essenzialmente di scrittura. Essendo la scrittura, nella concezione di Kafka come di Bataille, il contrario esatto di un mestiere, essa è deresponsabilizzazione totale. La mancanza di responsabilità, l’essere esonerati dal prender sulle proprie spalle decisioni e progetti, non è forse una delle caratteristiche dell’età infantile? Per questo Bataille può affermare che Kafka, che pur conduceva «una lotta accanita per entrare nella società del padre con pienezza di diritti», ha posto fino alla fine una condizione: «Di restare il bimbo irresponsabile che era» (LM, IX, 277; 144). In realtà questa affermazione batailliana può essere rovesciata: chi ha una forte ed esclusiva, cioè totalizzante, vocazione artistica sa, o dovrebbe sapere, che essa è incompatibile con le responsabilità di una vita normale. L’infantilismo o, più esattamente, il lato immaturo di Kafka risiede invece nell’aver lottato per tutta una vita perché il padre approvasse il suo scrivere, perché accettasse di riaccoglierlo nella sua sfera così com’era. In altri termini, la quasi fastidiosa insistenza, tutta batailliana, sulla presunta puerilità di Kafka può essere giustificata solo nella prosecuzione di un discorso tutto interno ad un’idea della sovranità che ha stati di libertà assoluta e stati di minorità che, di fatto, a differenza del vero stato infantile, sovranamente inconsapevole, assurgono alla sovranità in quanto consapute e volute. Il sogno kafkiano prosegue all’ombra dell’autorità paterna che riconferma la puerilità della sua situazione. Con un congedo definitivo dal padre e quindi dalle opinioni della comunità, Kafka avrebbe potuto essere del tutto libero, ma egli non aspirava alla libertà, aspirava alla scrittura.

In questo senso gli eroi di Kafka sono del tutto impermeabili alla realtà, non prendono mai sul serio il reale ma soltanto i tortuosi sentieri della loro anima, incommensurabile agli oggetti e alle persone da cui è circondata. Ma è appunto ciò che accade a chi si sente assediato da un mondo che non capisce. Nel romanzo di Kafka il reale viene del tutto sostituito da un altro mondo, non per aspirazione ad una idealità più alta, secondo il criterio ben noto della verità in arte, ma per incapacità di fare i conti col mondo di tutti, per la consapevolezza di vivere, come egli stesso disse a Max Brod, nella sfera dell’impossibile. Scrive a questo proposito Ladislao Mittner: «Tutte le cose di questo mondo sono per lui cose dell’“altro” mondo: non solo e non tanto le cose orribili, quanto quelle naturali, quotidiane, banali. […] Chi vive veramente nella realtà, trova angoscianti le cose che violano o sembrano violare la legge della realtà; chi vive fuori della realtà trova angosciante la realtà intera, e la trova tanto più angosciante, quanto più perfettamente essa ubbidisce alla propria legge, quanto più essa è normale». Bataille traduce in termini di irrazionalità e disordine, secondo le sue categorie estetiche ed esistenziali più consuete, il fondamentale stato d’animo kafkiano: «In una parola – dice – volle che l’esistenza di un mondo irrazionale e i cui significati non si compongono in un ordine rimanesse l’esistenza sovrana»; e conclude con un apparente balzo in avanti: «Quell’esistenza che è possibile soltanto nella misura in cui chiama la morte» (LM, IX, 278; 145). È, come si vede, una traduzione radicale del senso del nulla che indubbiamente caratterizzò la scrittura di Kafka. Quando si è consapevoli che il nulla segna non l’esistenza in genere ma, come nel caso di Kafka, solo la propria esistenza, la rinuncia all’azione, il porsi dalla parte del capriccio e dell’arte si rivelano un richiamo verso la morte.

A Bataille sfuggono comunque alcune fondamentali implicazioni estetiche della esuberanza di Kafka, anche nei passi da lui riportati. Questo per esempio: «Non ho mai potuto comprendere come a quasi tutti coloro che sanno scrivere sia possibile oggettivare il dolore pur nel dolore; al punto che, per esempio, nella sventura e forse con la testa ancora tutta febbricitante, io posso sedermi per comunicare a qualcuno per iscritto: io sono infelice. Anzi andando ancora oltre, posso, con diversi svolazzi, secondo il talento che sembra non aver nulla in comune con l’infelicità, improvvisare su questo tema, semplicemente o per antitesi o ancora con delle orchestrazioni intere di associazioni. E questa non è menzogna o lenimento del dolore, ma è una esuberanza di forze accordata dalla grazia in un momento in cui il dolore ha tuttavia esaurito tutte le forze sino in fondo al mio essere che ne è ancora tormentato. Che cosa è questa esuberanza dunque?» (LM, IX, 280-281). Il tema non è nuovo; in modo altamente poetico lo aveva già posto Goethe nel Torquato Tasso: «E mentre l’uomo nel suo tormento si fa muto, a me un dio concesse di dire come soffro». Ma c’è indubbiamente in Kafka una sfumatura diversa. Il dono degli dei è visto come un qualcosa che travalica il sentimento stesso e lo stato d’animo individuale; il talento consente, non senza una nota ironica da parte di Kafka, svolazzi e variazioni sul tema che coesistono col dolore e la sventura. Non si tratta né di mancanza di sincerità, né di catarsi attraverso l’espressione artistica; è eccesso che, alla fine, supera in intensità e in urgenza il dolore stesso. Bataille riprende la domanda kafkiana per dare una risposta nella quale si mescolano più piani di quanti la tematizzazione dell’autore non presenti nel passo citato. Ricorre alla Condanna, ma anche al passo del Diario in cui Kafka registra tempi e stati d’animo del racconto appena concluso. Quel che si ricava dai passi riportati da Bataille è che, laddove i passi del Diario sono una sorta di piccolo manifesto della letteratura, i racconti in genere, e questo in particolare, fanno necessariamente leva su un contenuto particolare, che però è solo pretesto per esprimere uno stato d’animo fine a se stesso.

 

Bibliografia:

Georges Bataille e l’estetica del male, di Maria Barbara Ponti

About Annalina Grasso

Giornalista, social media manager e blogger campana. Laureata in lettere e filologia, master in arte. Amo il cinema, l'arte, la musica, la letteratura, in particolare quella russa, francese e italiana. Collaboro con L'Identità, exlibris e Sharing TV

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