Onore all’editore Aragno, che dopo aver pubblicato Amor fati, Pavese all’ombra di Nietzsche (a cura di Francesca Belviso, introduzione di Angelo d’Orsi, 2016), ha reso piena giustizia allo scrittore piemontese ripubblicando, come necessaria integrazione all’inedito nietzscheano, quello che è stato identificato come il “taccuino segreto” di Cesare Pavese. Protagonisti della curatela gli stessi Belviso e d’Orsi. Seppur già noto per essere stato pubblicato l’8 agosto 1990 sul quotidiano “La Stampa” dal suo scopritore, Lorenzo Mondo, il “taccuino” meritava di essere riproposto con apparati adeguati, perché oltremodo utile, dopo la scoperta del Pavese lettore e traduttore di Nietzsche, per integrare i tratti, altrimenti parziali, della complessa personalità del piemontese.
Nel piccolo block notes (cm 12 x 15) comprendente 30 fogli non numerati di carta quadrettata, tutti riprodotti in appendice in quest’edizione Aragno, gli appunti di Cesare risalgono agli anni 1942-43 e, come nel diario, Il mestiere di vivere, trattano quasi esclusivamente di politica e di guerra. Al suo apparire, ricorda Lorenzo Mondo in uno scritto contenuto nel volume, il taccuino risultò “sconvolgente”, perché sconvolgeva l’immagine che si erano fatti di Pavese gli appartenenti all’establishment antifascista italiano. Uno sconvolgimento facile da comprendere: “Una cosa fa rabbia”, appuntava lo scrittore il 25 ottobre 1942, “Una cosa fa rabbia. Gli antif.[ascisti] sanno tutto, superano tutto, ma quando discutono litigano soltanto… E mostra ben che alla virtù latina o nulla manca o sol la disciplina. Il f.[ascismo] è questa disciplina. Gli italiani mugugnano, ma insomma gli fa bene”.
A rimarcare la sua durezza, leggiamo ancora:
Stupido come un antif.[ascista]. Chi è che lo diceva? Il fascismo aveva posto dei problemi, se anche non tutti risolti. Questi salami negano fasc.[ismo] e problemi e poi dicono che saranno risolti. Chi si vuol coglionare?
Mentre non mancano le parole positive sulla ventennale esperienza politica legata a Mussolini: “Il f.[ascismo] non solo ha dato l’unità all’Italia, ma ora tende a dargliela repubblicana, contro l’opinione che in It.[alia] la repubbl.[ica] siano le repubbl.[iche]. Naturale che incontri resistenza e sembri lacerarne la coscienza. Ma è il male della crescita”.
Non mancano, e certo per molti sono risultate e risultano ancor più inquietanti, le considerazioni sui nazionalsocialisti, il cui operato viene confrontato con altre pagine drammatiche della storia europea:
Tutte queste storie di atrocità naz.[iste] che spaventano i borghesi, che cosa sono di diverso dalle storie sulla rivoluzione franc.[ese], che pure ebbe la ragione dalla sua? Se anche fossero vere, la storia non va coi guanti. Forse il vero difetto di noi italiani è che non sappiamo essere atroci.
Uno sguardo, quello di Pavese, che da alcuni anni era rivolto verso i tedeschi e la loro lingua. Così lo rivela lui stesso nel taccuino: “Ora che nella tragedia hai visto più a fondo, diresti ancora che non capisci la politica? Semplicemente ora hai scoperto dentro – sotto la spinta del disgusto – il vero interesse che non è più le tue sciocche futili chiacchiere ma il destino di un popolo di cui fai parte: Boden und Blut – si dice così? Questa gente ha saputo trovare la vera espressione”. E prosegue, sempre rivolto a se stesso: “Perché nel ’40 ti sei messo a studiare il tedesco? Quella voglia che ti pareva soltanto commerciale, era l’impulso del subcosciente a entrare in una nuova realtà. Un destino. Amor fati”.
Un destino passato concretamente attraverso il tedesco di Friedrich Nietzsche. Ecco perché è utile affrontare ora l’altro coraggioso volume Aragno, anticipatore del taccuino pavesiano. Allontanatosi dalla Torino occupata dai tedeschi, dal settembre 1943 al 1945 Cesare Pavese, a differenza di suoi amici che da quel momento si spesero per la lotta clandestina, si ritirò sulle colline di Serralunga per leggere e scrivere, ma anche per tradurre.
Tra le riletture, quella di alcune opere di Friedrich Nietzsche, ma soprattutto, fatto ignoto fino a poco tempo fa, la traduzione di Volontà di potenza (l’originale del filosofo, Wille zur Macht, è una raccolta postuma di scritti, edita a partire dal 1901 in almeno cinque diverse edizioni e Pavese lavorò su quella del 1930), senza che vi fosse alcun intento di pubblicarla. Un duplice approccio al tedesco che secondo Francesca Belviso coincide con una “svolta esistenziale e poetica”. Il manoscritto pavesiano contenente la versione della Prefazione e dei primi due libri (il secondo non per intero) conta 97 fogli sciolti.
Significativa è anche la storia di questo documento, poiché sebbene ritrovato e inventariato già nel 1950, viene segnalato pubblicamente da Lancillotta solo nel 1998, ed è da quell’anno che la problematica Pavese-Nietzsche inizia ad essere affrontata dalla critica. Belviso parla addirittura di “germanofilia” pavesiana, una passione emersa negli anni giovanili e “coltivata con rinnovato entusiasmo in età adulta”.
Negli anni che lo videro frequentare a Torino con grande interesse e profitto i corsi di letteratura tedesca di Arturo Farinelli (1926-30), Pavese affrontò lo studio della lingua da autodidatta e tuttavia ardito, tanto da misurarsi con molte traduzioni di testi da Goethe, Schiller, Herder, Heine, Hölderlin.
Nel 1940 Pavese s’immerse dunque nella lettura di Nietzsche e incontrò Giaime Pintor, giovane studioso e traduttore dal tedesco. Anche qui, viene da dire, “un destino”, perché proprio Pintor avrebbe curato nel 1943 per Einaudi un’edizione delle nietzscheane Considerazioni sulla storia, criticando coloro che nel filosofo tedesco vedevano l’ispiratore di tutti gli irrazionalismi moderni, movimento fascista compreso.
Circa il metodo del tradurre, quello di Pavese è conservativo. Per lui contava cioè anzitutto il maggior rispetto possibile verso l’originale, la ricerca della sua essenza. In una lettera del 1940 è lo scrittore stesso a sottolineare come, per tradurre bene, cioè perché non si tratti di “un lavoro meccanico che chiunque può fare”, sia necessario “innamorarsi della materia verbale”.
La riapertura del “caso Pavese-Nietzsche”, come lo chiama Angelo d’Orsi nel testo che introduce Amor fati è stata l’occasione per una rilettura dell’intera opera dello scrittore piemontese alla luce dei suoi interessi, che finalmente si è scoperto essere più complessi rispetto a quanto immaginato fino ad allora (per decenni sono stati sottolineati solo il suo amore e la sua curiosità per la letteratura americana, senza alcun accenno alla sua “germanofilia”).
Ma il Nietzsche coltivato da Pavese fa anche tornare alla mente, con un po’ di malinconia, uno studioso eclettico e di confine, filosofo di formazione, ma poeta per vocazione, scomparso presto, troppo presto: Antonio Santori (1961-2007). Un marchigiano di cui oggi, dopo che è emerso finalmente in tutta la sua ricchezza il “caso Pavese-Nietzsche” (a lui del tutto ignoto), si può dire avesse “intravisto”, senza saperlo e senza avere il tempo per evidenziarne la tessitura ordita dal destino (dall’amor fati, per stare allo stesso Pavese), come i due abbiano in qualche modo segretamente dialogato, si siano incontrati.
Antonio, prima di abbandonarsi alla poesia, ha avuto il tempo per scrivere un paio di saggi filosofico-letterari: Esperimento di lettura: i Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese. La poetica dell’incontro (Antenore 1985), e Verso la meraviglia d’oro. Dono e incoscienza in Nietzsche (Il Lavoro Editoriale 1990, “casualmente”, proprio l’anno dell’emergere del Taccuino segreto…). Pavese e Nietzsche, fatalmente le due stelle che hanno brillato nell’orizzonte creativo di Santori, autore di quattro poemi, proprio a partire da quel 1990.