Pascoli indugia sul Cantico dei Cantici. Rielabora gli spunti, talora minimi, offerti dalle sacre leggende popolari raccolte da Giuseppe Pitrè, vi accosta ver-setti dei vangeli, mostrando tutta la peculiarità del suo fare poetico. Il Piccolo Vangelo, anche per questo, si pone tra i casi esemplari delle riscritture bibliche.
I fogli autografi conservati a Castelvecchio nel fascicolo Preparativi peril Piccolo Vangelo, che riporta nella sua terrena missione Gesù, che il poeta chiama “figlio di Dio”, ma che vede nel suo più realistico aspetto; un Gesù uomo, con il suo essere terreno con il quale affronta una divina missione, che per gli altri è un profeta, ma la sua è una missione di umanità, carità e di martirio, mostrano la ricchezza, l’attualità e la rilevanza delle fonti che Pascoli consultò e trascrisse, nella redazione del suo «futuro successo».
Assieme alle idee sparse, alle varie ipotesi abbozzate, ai lunghi elenchi di titoli, vi sono infatti riferimenti ai più aggiornati studi in campo biblico con trascrizioni puntuali o richiami a consultazioni erudite. Questo aspetto, a suo modo sorprendente, tanto più se vi si affianca la coeva produzione dei poemetti cristiani in lingua latina esemplari per lingua e contenuti, invita a indagare più ampiamente i rapporti di Pascoli con il sentire religioso nel trapasso del secolo, per arrivare a suggerire i possibili motivi di una scelta letteraria che ha per protagonista Gesù.
La fine del secolo fluiva nel Novecento in un clima di generale attesa, con umili e segrete speranze oppure solenni e rilevate aspettative. Ad amplificare l’annuncio del tempo nuovo, in una visione fortemente suggestiva, venivano tolti i sigilli alla Porta Santa di San Pietro, con l’inaugurazione del primo Giubileo nello Stato Italiano, quando l’autorità temporale del Papa era già sfumata.
In quegli anni di transizione, e di fervore, Giovanni Pascoli s’impegnava così nello studio assiduo e approfondito della Bibbia con esiti diversi, dalla prosa alla poesia, lungo un medesimo disegno e pensiero. Le indagini dantesche, le riflessioni leopardiane, le prose programmatiche e d’impegno umanitario preparate tra il 1895 ed il 1906, quali L’era nuova, L’avvento, Il settimo giorno, La messa d’oro, sono infatti disseminate di riferimenti biblici con proposito, com’è stato rilevato, non puramente esemplificativo o retorico ben-sì etico-pedagogico.
Il Grande Codice offriva le chiavi interpretative del poema divino, illuminava la toccante meditazione sulla vita e sosteneva l’ideale umanitario pascoliano, nel segno di una possibile redenzione universale. La dedizione pascoliana alle pagine della Sacra Scrittura risulta inoltre di grande interesse perché si esprime in un contesto culturale, prossimo a Pascoli, ma di segno contrario, rappresentato in maniera emblematica da Carducci e dall’entourage bolognese.
«Caru Petru, iu n’ò munnu fici tutti cosi giusti e prupurziunati» (Pitrè [1888: 171]). Di là dal sapore squisitamente popolare della parabola, Pascoli registra nei sui appunti solo l’immagine degli alberi alti e i frutti piccoli, citando la fonte (A VII, 244). L’apparente dissonanza tra i due termini opposti diviene ne Il fiore rassicurante già dai primi versi, sostituendo alla pesantezza del frutto la levità dei petali e offrendo la certezza di una sicura fioritura, in qualsiasi condizione o stato, nel tempo opportuno:
E seguitò: Nel fiore de la vita. Ché non è pianta, ché non è vermena che non si trovi al tempo suo fiorita;[…]e la quercia che immensa l’ombra spande, piccolo; e il fioraliso ch’ha lo stelo sottile, porta il fiore suo più grande: piccolo il pino, grande il grogo: e il melo
Le parole del Gesù di Pascoli rimandano, ancora, ad una giustizia e ad una proporzione rivelate dalla stessa natura che non manca di confortare nella dolce e positiva illusione di una «fuggevol cosa», capace di custodire il miele della vita, libato dalle api, dal poeta e dalla «paziente anima umana» (L’ape,v. 8). L’immagine originaria si estende quindi al rapporto tra il fuggevole e l’eterno, l’asperità di un cespuglio spinoso e la grazia della rosa. E, in modo chiaro, tra lo sguardo comune, schietto e pratico, lo sguardo di San Pietro, e la contemplazione poetica che rinviene o crea destini ulteriori, all’ombra delle stelle d’oro:
L’affinità con l’aura morale o conoscitiva della leggenda popolare di riferimento non fa altro che confermarne l’intento, in favore dell’esito poetico. Se San Pietro,«comu li cani vastunati» (Pitrè [1888: 171]), accetta lo stato delle cose entro il registro emotivo della paura, pur nell’accezione caricaturale, «pirchì annuncami pò succediri qualchi mali comu chistu», Pascoli, nelle parole di Gesù, invita ad una condizione interiore esile ma libera, come fa l’ape ovvero il poeta:
[…]In verità ti dico, anima: ornello o salcio o cardo, ognuno ha sua fiorita; amara o dolce; ma sol dolce è quello che tu ne libi miele de la vita(L’ape, vv. 16-19).
E Gesù rivedeva, oltre il Giordano,
campagne sotto il mietitor rimorte:
il suo giorno non molto era lontano.
E stettero le donne in sulle porte
delle case, dicendo: «Ave, Profeta!»
Egli pensava al giorno di sua morte.
Egli si assise all’ombra d’una meta
di grano, e disse: «Se non è chi celi
sotterra il seme, non sarà chi mieta».
Egli parlava di granai ne’ Cieli:
voi fanciulli, intorno lui correste
con nelle teste brune aridi steli.
Egli stringeva al seno quelle teste
brune; e Cefa parlò: «Se costì siedi,
temo per l’inconsutile tua veste».
>Egli abbracciava i suoi piccoli eredi:
«Il figlio – Giuda bisbigliò veloce –
d’un ladro, o Rabbi, t’è costì tra’ piedi:
Barabba ha nome il padre suo, che in croce
morirà». Ma il Profeta, alzando gli occhi,
«No», mormorò con l’ombra nella voce;
e prese il bimbo sopra i suoi ginocchi.