Per comprendere meglio cosa siano l’Io e l’Altro in psicoanalisi, soprattutto cosa sia l’Altro che con il suo destarsi e le sue rivolte, scatena sofferenze e conflitti testimoniati dalla deformazione della fisionomia del personaggio-uomo del romanzo del ‘900, bisogna uscire per un momento dal campo dell’arte.
La psicoanalisi di Freud e la deformazione dei personaggi
Solitamente si pensa per tradizione che gli artisti continuano a passare per ispirati, che siano fautori di visioni del mondo, di grandi interpretazioni della vita che poi prevarranno nella storia vissuta e persino nelle ipotesi su cui si fondano le scienze. Invece, nel caso della scoperta della dualità di Io e Altro, l’iniziativa è toccata alla scienza e più precisamente alla psichiatria; l’arte non fa altro che constatare, in un momento successivo, gli effetti dolorosi di quel dualismo, i drammi che si possono leggere nel sintomo della frantumazione dei personaggi.
Si prenda ad esempio Dolore e grandezza di Wagner di Thomas Mann, lo scrittore mostra come certi episodi dei drammi wagneriano sono già psicoanalisi ante litteram: le evocazioni dell’immagine materna da parte di Sigfrido prima del duello con il drago e della corsa verso l’amore da parte di Parsifal nel giardino del mago Klingsor. Anche Nietzsche in Nascita della tragedia, isola il momento dionisiaco nell’anima greca e lo contrappone al momento apollineo della serenità, facendo la psicoanalisi dell’anima e dell’arte greca mettendo a nudo addirittura i movimenti dell’Altro dentro l’Io. Freud ha scoperto la causa, l’agente che determina il sintomo, cioè l’Altro che dal di dentro si scatena contro l’Io, cui è stato dato il nome di Inconscio. La psichiatria poi si mette ad osservare le nevrosi che appartengono alla classe borghese, già in crisi perché sta perdendo il suo predominio. La psicoanalisi dunque individua una scissione nell’unità della persona e a identificare l’Io e l’Es, conscio ed inconscio; gli artisti e i romanzieri che hanno bisogno di dare corpo alle idee, hanno subito visto che quelle deformazioni si potevano leggere sulle facce dei personaggi, la cui coscienza di sviluppa in senso verticale, anziché orizzontale.
La letteratura e l’arte, dunque, rappresentano sul visibile gli effetti di un fenomeno di cui la scienza ha già cercato di individuare le cause: il neuropsichiatra polacco Josef Babinski fu di aiuto al neurologo francese Charcot e portò contributi memorabili secondo gli addetti ai lavori, alle ricerche sulla patogenesi dell’isteria. Il suo nome rimarrà legato anche alla storia letteraria visto che durante la sua attività professionale ebbe tra i suoi pazienti Marcel Proust, probabilmente malato di un’affezione allergica. Babinski ha coniato il termine pitiatismo in relazione alla massima diffusione di una certa malattia in un determinato periodo del tempo, che predomina su tutte le altre, come se persuadesse il corpo umano (oggi la malattia più “persuasiva” è il cancro).
Applicando al ragionamento che verte sulla letteratura e l’arte, la nomenclatura di Babinski si potrebbe affermare che l’arte moderna è la denuncia di un pitiatismo esercitato dalla malattia dell’Altro, dal <<complesso>> dell’Altro. Ed ecco il male di vivere, i drammi che soffre il personaggio-uomo; se nel romanzo tradizionale il personaggio dava la colpa dei suoi mali al destino (pensiamo solo a Madame Bovary), nel romanzo del ‘900 il personaggio-uomo dà la colpa al problema. Quando nel saggio L’esistenzialismo è un umanismo, Sartre afferma che l’avvenire è il mio progetto, l’ovvia obiezione è che io non possa fare un progetto diverso da quello che i miei mezzi personali mi consentono e la frase di Goethe che esclama: “Non sarei stato tanto stupido da estrarre nella lotteria della vita il biglietto perdente”, si cerca di ammettere che il destino è già stato molto favorevole da concedere ai due scrittori l’intelligenza di aggiudicarsi un destino favorevole. Ma le cose cambiano quando all’idea del destino si sostituisce quella di un problema storico-strutturale che si può risolvere con la ragione e l’attività umana. Per il personaggio-uomo le sue difficoltà è come se dipendessero da un ospite esagitato che porta dentro di se; a tal proposito lo psichiatra Jung ha osservato che i complessi generati dalla vitalità dell’inconscio sono come tumori maligni che proliferano all’interno di noi stessi. Questo tumulto interiore si riversa sull’aspetto esteriore dei personaggi che sono deformati, brutti, perturbati, sul cui volto si imprime una smorfia.
Quando Kafka dice che la sola cosa che può interessare è la smorfia, non ha bisogno di dichiarare; quando nel Castello egli narra l’apparizione dei due valletti nella taverna, forse non si rende conto che costruisce figurazioni e movimenti da balletto onirico, di cui qualunque esegeta riuscirebbe a trovare la genesi e le motivazioni, avvalendosi della casistica e dei metodi esposti da Freud nell’Interpretazione dei sogni.
Bibliografia: G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento.