Partiamo da una suggestione poetica. Silvio Raffo, scrittore e traduttore romano, dedica recentemente un intero poemetto all’attesa. Il titolo è evocativo, En attendant, che non significa altro che “aspettando”, “nell’attesa”. E il proposito è di raccontare l’attesa dal punto di vista di chi sta attendendo: non da chi la osserva come un oggetto da analizzare esternamente, con occhio clinico, ma da chi ne partecipa, in un certo senso, incarnandola. D’altra parte Elias Canetti diceva che nessuno può comprendere l’attesa tranne l’atteso o chi è in attesa. Ora, l’attesa è uno degli stati più singolari che un essere umano possa provare. Lo stesso Canetti ci dice ancora: [l’attesa] è per intensità superiore a qualunque altro. Il poemetto di Raffo ci dice innanzitutto, prima di trasgredire questa idea, che l’attesa è sempre attesa di qualcosa. Questo qualcosa il poeta lo indica come una sorpresa, lo chiama evento, lo indica come un ospite angelico. La sua è un’attesa viscerale, totalizzante, assoluta:
Il maggior tempo della vita ho speso
attendendo qualcuno che doveva
venire e non veniva
Mai non saprò se si sapeva atteso
con tanto amore l’ospite, né credo
che l’opposto per me sia mai avvenuto.
La premura è interessante. Prima ancora di domandarsi perché l’atteso ospite non viene (e ogni ospite deve venire, per essere tale), ci si preoccupa del fatto che l’ospite potrebbe non sapere mai che era stato atteso con amore, ovvero con dedizione. La pena provocata dall’attesa non dipende dall’attesa in sé, che potrebbe risultare vana, ma dal far perdere il proprio statuto tanto all’ospite quanto a chi attende. Io l’aspetto, ma l’ospite sa che lo sto aspettando? Sa con quanta cura lo attendo? Ed io sono a mia volta atteso con la stessa cura?
È strano leggere o scrivere un poema sull’attesa oggi, quando l’attesa sembra ormai un gesto ripudiato, da evitare, obsoleto, buono per altri tempi, inutile e spaventosamente improduttivo. Oggigiorno più si attende, peggio è. Attendere troppo che il bus arrivi alla fermata, significa perdere ore di lavoro. Un ritardo può generare una catena di mancanze in grado di mandare all’aria una giornata. È impensabile che un messaggio non giunga a destinazione pochi secondi dopo la sua spedizione e ci si innervosisce per la lettura tardiva di una mail, mezzo già fin troppo lento e macchinoso (troppo tempo, troppa attesa…). Ma l’attesa, che nella sua stessa ossatura ha a che fare profondamente con il tempo, dilata il tempo o, nei casi più eclatanti, lo sospende, lo fa uscire dai cardini. Dice Raffo, addirittura:
Non ci son più lancette.
Quello dell’attesa ha tutta la dignità di essere, perciò, un tempo, il tempo dell’attesa, e non una banale perdita di tempo.
Se c’è un luogo in cui il tema dell’attesa assume una statura concettuale vera e propria, questo è il contemporaneo. In un lungo percorso costellato di rivoluzioni nella riflessione sul tempo, l’attesa sembra qualcosa con cui la contemporaneità non può evitare di fare i conti, tanto che questo percorso sembra essere culminato, oggi, con un diktat minaccioso: non c’è più tempo. L’attesa appare, ora più che mai, come un serio impedimento. Per tutti. Per chi produce, per chi vive una vita dinamica, per chi viaggia, per chi soffre di una malattia, per chi aspetta una risposta… Questo accade non solo perché ci si è spinti tanto da diminuire con ogni mezzo, se non annullare, i tempi di attesa, finendo col percepire chiaramente l’attesa come una falla del sistema in cui ci collochiamo; non solo perché i gesti che ci accompagnano sono aumentati esponenzialmente; non solo perché siamo sempre più stufi di aspettare. Ma perché il tempo stesso è cambiato. Ha allora ragione chi parla di essere senza tempo, facendo l’occhiolino a Heidegger, chi parla di filosofia (o nichilismo) della fretta, di modernità irrequieta. Questo perché il nostro occhio è talmente diventato futuro-centrico, da non permettere altra forma di tempo che quello dell’accelerazione: il passato richiede memoria, riflessione, quiete, il presente ha le forme di un tempo impaziente, nell’attesa spasmodica di un futuro che deve arrivare il prima possibile. D’altra parte, se la lezione di Marx è in grado di attribuire manifestamente le cause di quest’accelerazione a un progresso spastico delle forme del modo di produzione capitalistico, se insomma il nostro tempo è il tempo di un capitalismo vistosamente accelerato nei suoi modi di manifestazione, non dobbiamo dimenticarci di quanto il filosofo tedesco scrive nei Grundrisse:
economia di tempo, a questo si riduce in ultima istanza ogni economia.
Ma quanto è vicino il tempo in cui si riusciva ancora ad attendere? Anna Kölher, nel suo L’arte dell’attesa, fa notare tramite uno studio sulla lingua tedesca, che l’attesa come «dolore» e «impazienza» (parole di Goethe) è un concetto che emerge solo nel XIX secolo. Si pensi semplicemente al Sabato del villaggio del nostro Leopardi, dove il giorno che precede la noiosa domenica, giorno d’attesa per antonomasia per la donzelletta, è percepito dal poeta come più gioioso dell’ora che si attende. Si pensi a La voce umana di Cocteau, 1930, dove non viene inscenato nient’altro che il tentativo da parte di una donna innamorata e non corrisposta di telefonare al suo amato. Il telefono è indice di distanza, certo, di una distanza che vuole essere colmata tramite la tecnica, tuttavia l’attesa della telefonata diventa non più un tempo sprecato, ma il tempo dell’amore sincero. Anche in Kafka c’è questo tempo, legato proprio alla telefonia. Il tutto viene spesso accompagnato da un paragone omerico, ovvero alla celebre scena del canto delle sirene, nel libro XII dell’Odissea, dove Ulisse affronta uno dei più suggestivi ed enigmatici pericoli della sua avventura, già preannunciato da Circe. Le sirene, che in Kafka sono decostruite come sirene silenti, fungono da quesito per la modernità: perché nella modernità le sirene non cantano? È un’astuzia in più da utilizzare a discapito di Ulisse? È mancanza di devozione verso gli dèi? In ogni caso l’assenza di canto, suona davvero come il più nichilistico dei canti e come un preludio per una modernità senza eroismi omerici.
Bertolt Brecht rispose: le sirene sono silenti perché sono indifferenti (altra categoria letteraria osannata dal Novecento, pensiamo a Moravia) verso un uomo tanto meschino come Odisseo. Il «fa’ che risponda adesso» che prelude allo squillo-canto-delle-sirene del telefono, diventa «perché non ha risposto subito?» o il pericoloso e dis-umano «si prega di attendere» dei call-center. Ma tra i presagi novecenteschi, il secolo breve offre ancora la possibilità di comprendere il significato dell’attesa, che sia l’attesa della telefonata o di una lettera. Il tempo che il poeta Rilke dedica all’attesa della lettera del suo giovane ed appassionato allievo nelle Lettere a un giovane poeta è un tempo riflessivo e autoriflessivo, tanto per chi attende quanto per chi è atteso. Ebbene questo tempo dell’attesa, disatteso, non è nemmeno più il tempo del silenzio delle sirene. È il tempo del trambusto e del fermento, che Montale spezza nella sua Gloria del disteso mezzogiorno, in cui nella desolazione del giorno afoso, tipico dei luoghi montaliani, l’attesa del temporale non è nient’altro che una speranza di gioia futura. E viaggiando dall’attesa che riesce a durare un’intera vita del Buzzati del Deserto dei tartari fino a quella ben più celebre del Godot di Beckett, l’attesa di chi deve venire e mai arriva, raccontata dalla grande filosofia del Novecento (si pensi solo a Lèvinas e a Derrida), ecco la verità cantata da Raffo:
Attendere: la sola condizione / concessa all’uomo nell’impermanenza […] Meglio, forse, non approdare mai / all’isola bramata.
Ecco il secolo della simultaneità, del real time. La lettera spedita vuole risposta immediata, la comunicazione non è più il luogo del tempo disteso e rinviato. L’incontro atteso può essere disatteso dalla sua sostituzione immaginaria, virtuale, nell’unico luogo in cui il tempo non sussiste, la rete. Tutto questo, però, già lo sappiamo. È interessante notare, invece, come certa sociologia non spieghi l’accelerazione degli ultimi decenni solo nei termini della tecnica, ma della competizione. L’attesa come dimensione agonale. Risparmiare tempo è, nel grande gioco dell’Occidente, assicurarsi una vittoria. Prima si arriva, meglio è. Basta qualche passo nel mondo del finanzcapitalismo, come lo ha definito Gallino, per vedere come la dimensione temporale sia cruciale: un millesimo di secondo in più può significare, per un computer di Wall Street, una catastrofe che si misura in perdite milionarie. Aspettiamo, certo… Aspettiamo negli aeroporti, nelle stazioni, al supermercato, dal dentista, ma non aspettiamo come prima. Le nostre dita, nel frattempo, compiono dozzine di gesti, le nostre preoccupazioni aumentano, approfittiamo di questo lasso di tempo come se dovessimo riempirlo tanto da eliminarlo. Non l’attesa amorosa di Penelope o di Madama Butterfly, non quella delle protagoniste di Melville, ma il «nervosismo moderno» di Freud, che teorizzò addirittura una nevrosi da attesa. Non sopportiamo l’attesa. Dice Eliot in Quattro quartetti:
O come quando un treno della ferrovia sotterranea si ferma troppo a lungo tra due stazioni
E s’ode la conversazione, poi un po’ per volta svanisce nel silenzio
E si vede che dietro ogni faccia si spalanca il vuoto mentale
E non resta che il crescente terrore di non aver nulla a cui pensare.
Ma l’attesa (almeno la sua), dice Raffo, non è brama, non è smania quella di cui arde, non d’avido leopardo / che aspro digiuno affama. / Io sono l’eremita / che dal chiostro murato / chiede al cielo stellato / sorsi di eterna vita, non è un’attesa angosciosa. È forse, seguendo l’analogia spirituale evocata dal poeta, più simile a quella mistica di Ekchart, come ce la racconta in uno dei più meravigliosi tra i suoi sermoni, In omnibus requiem quaesivi (“in tutte le cose ho cercato la quiete”):
Tutte le creature cercano la quiete per loro naturale tendenza […] Alla pietra non viene tolto l’impulso a muoversi sempre verso il suolo, finché non giace sul suolo stesso. Similmente fa il fuoco: esso tende verso l’alto, ed ogni creatura cerca il proprio luogo naturale. Così le creature rivelano la somiglianza con la quiete divina, che Dio in tutte ha gettato.
Perché più che mai il tentativo di eliminare l’attesa è, in fondo, un desiderio di quiete.