Memoriale di Paolo Volponi si configura come il racconto della vita di un operaio durante un arco cronologico di dieci anni. Albino Saluggia è dunque protagonista e narratore delle vicende. Egli, reduce dalla guerra e dalla prigionia in Germania, attraversa profondi contrasti individuali e familiari acuiti dall’esperienza bellica e vive l’ingresso in fabbrica come l’opportunità (che si rivelerà poi falsa) di ottenere un risarcimento per i suoi mali.
Questo si concretizza nel 1946, ma immediatamente l’anno seguente si presentano problemi di salute. Saluggia entra ed esce dall’infermeria di fabbrica, a causa di una diagnosi di tubercolosi. Qui incontra il Dottor Tortora, una figura che si rivela paternalistica poiché impartisce direttive con severità e allo stesso tempo paterna poiché lo prende in cura. L’operaio negli anni successivi si divide tra sanatorio e fabbrica, nel tentativo di curare una nevrosi e tra il 1951 e il 1952 si affida alle cure del presunto Dottor Fioravanti che gli inietta un siero non altrimenti specificato. La finzione letteraria impone di credere che il resoconto sia stato scritto alla fine di questo arco cronologico, ma alcuni avverbi di tempo che compaiono nel testo, ad esempio «oggi», indicano che Albino Saluggia avrebbe potuto scrivere in diversi momenti e quindi alternare stadi di consapevolezza differenti.
Il Memoriale consiste in una narrazione a scopo auto-terapeutico, «una introspezione autoanalitica]» per certi versi simile al modello sveviano. Il protagonista non è un operaio come gli altri, difficilmente socializza, non è sindacalizzato né ha coscienza di classe, ha una sua lingua peculiare e un particolare modo di raccontare.
Rispetto agli operai di Ottieri egli risulta sconfitto, ma non solo dal lavoro di fabbrica. Saluggia non è unicamente controfigura del disagio operaio, non rappresenta solamente il dramma dell’alienazione, non incarna la rabbia sociale. Saluggia si trova al centro di un conflitto ben più ampio e cioè quello tra io, società e reale. Il suo male sembra connaturato alla sua esistenza, come nel caso di Zeno, e su questa l’autore riflette e dichiara: <<Io mi sono messo in mente di non scrivere romanzi sull’io […] proprio perché sento forte oggi l’impegno di fare un discorso in termini oggettivi, di confronto con il reale, in termini, senza presunzione alcuna, di storia>>.
La natura restituisce solo temporaneamente al protagonista un afflato salvifico perché poi finisce inevitabilmente col sovrapporsi all’idea di fabbrica corredata di tutti i suoi aspetti negativi. Se per Sarte la nausea deriva dall’errato rapporto tra soggetto e mondo delle cose e dal fatto che queste assumano tratti e sfumature umane, è proprio questo che Albino Saluggia vive. Egli mescola il reale, non distingue più i confini, lo fagocita e finisce col perdere la sua identità. Ecco che il mondo diventa antropomorfizzato:
Guardavo la campagna e fumavo; il fumo che usciva dal finestrino, tra la luce del treno e la notte azzurra, diventava una cosa viva, un animale che dovesse nascondersi tra i campi e le fratte.
La fabbrica che assorbe la vita dell’operaio sottrae a questo l’identità ed il senso del presente: «il tempo interiore del narratore, legato al mondo contadino, è circolare e mitico, viceversa il tempo della fabbrica è artificiale e alterato». La tesi di Memoriale è avvalorata da una confessione dello stesso Saluggia:
Quando io sono entrato nella fabbrica, l’orologio della nostra officina segnava l’ora 1227. Anche il tempo, come gli uomini, è diverso nella fabbrica; perde il suo giro per seguire la vita dei pezzi.
Ben lontano è però il fine ultimo di Memoriale dall’individuare nella fabbrica il capro espiatorio universale al quale imputare le lacerazioni dell’umano. La storia di Albino Saluggia non è una storia finita e le contraddizioni non si appianano.
Fonti
G. Alfano, F. De Cristofaro, Il romanzo in Italia, Vol. 4: secondo Novecento, II, Carocci, Roma, 2018