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Luca Siniscalco

Prof. Luca Siniscalco: “L’estetica è la paradossale ma fertile indagine di quella soglia sensibile che è sempre apertura al mistero

Luca Siniscalco ha studiato filosofia presso l’Università degli Studi della sua città e alla Universität Carl von Ossietzky di Oldenburg (Germania). Dottorando in Studi Umanistici Transculturali presso l’Università degli Studi di Bergamo, in cotutela con la Justus-Liebig-Universität di Gießen, con un progetto di ricerca intitolato The Event of the sacred in postsecular age. Encounters with Hans-Georg Gadamer’s hermeneutics, Hermann Nitsch’s and Anselm Kiefer’s art, è stato Professore a contratto di Estetica presso l’Università degli Studi di Milano (UNIMI) e l’Università eCampus, tiene corsi di Filosofia, Esoterismo e Letteratura nel progetto accademico UniTreEdu.  Ha curato saggi di E. Jünger, N. Sombart, W.I. Thompson, A.J. Heschel, J. Josipovici, E. Niekisch, J. Evola. È redattore di «Antarès – Prospettive Antimoderne» (Edizioni Bietti) e delle riviste accademiche «Informazione Filosofica», «Medium e Medialità», «Education & Learning Styles». Suoi articoli e saggi sono apparsi su numerose riviste scientifiche e divulgative, quotidiani, e in svariate antologie.  Ha curato numerose mostre d’arte (personali e collettive).

Luca Siniscalco

Professore di Estetica, Filosofia, Letteratura e storia contemporanea, collabora da anni in qualità di curatore con il Nuovo Rinascimento di Milano, fondato dall’artista Davide Foschi con presidente Rosella Maspero. Intellettuale raffinatissimo, è tra gli “Autori in permanenza al Centro Leonardo da Vinci Art Expo Milano”.

Siniscalco riflette sul concetto di estetica moderna, sul problema della negazione del sacro nel mondo moderno, che riemerge nella postmodernità scegliendo come terreno d’elezione l’arte, sull’antimodernità e i suoi protagonisti, sulla funzione dei social media, sull’iperinformazione frenetica e confusionaria di oggi, tra Heidegger, Junger e Eliade.

 

 

1 Nell’ultima pubblicazione da lei curata, “DissacrArte”, si affronta il problema della negazione del sacro nel mondo moderno, che però riemerge nella postmodernità scegliendo come terreno d’elezione l’arte. Qual è il fattore principale alla base di tale negazione?

È il problema della secolarizzazione o del “disincanto del mondo” (M. Weber). Come diagnosticato sin dal primo Novecento da numerose ed eterogenee famiglie filosofiche, nella modernità occidentale – che, in seguito alla mondializzazione, ha colonizzato il globo intero – il rapporto con il sacro, ossia l’esperienza sorgiva dell’incontro con il “totalmente altro” (per citare R. Otto), è sempre più relegato ad ambiti marginali della vita sociale, culturale e politica. Laddove, invece, esso è stato valorizzato, sovente ha rischiato di divenire preda di strumentalizzazioni, incomprensioni, riduzionismi. Eppure, questa dimensione, che nell’esistenza dell’uomo, costitutivamente homo religiosus (M. Eliade), è esperienza originaria, è spesso riemersa in forma visibile, anche in ambiti nuovi rispetto a quelli tradizionalmente impregnati dalla “dialettica del sacro e del profano”. L’arte gioca, in tale contesto, un ruolo fondamentale. Nelle forme dell’arte si sono occultati miti, simboli, archetipi, che continuano tuttavia a lasciar scorgere sottotraccia – a chi ha gli strumenti interpretativi per coglierlo – il legame mai scisso con il Principio.

Con l’incedere della cosiddetta “postmodernità”, un vero e proprio nuovo paradigma di civiltà e visione del mondo, in cui i processi del Moderno, per eterogenesi dei fini, si sono rivolti contro la modernità stessa, plasmando un aeriforme, rizomatico e proteiforme scenario, la “grande muraglia” (per citare R. Guénon) che circonda il nostro mondo proteggendolo contro l’intrusione di influenze telluriche è ampiamente crollato. Se la “solidificazione” del mondo sensibile nella modernità ha serrato ogni passaggio verso la trascendenza, le “fenditure” nella “grande muraglia” si aprono oggi da ogni parte. Attraverso di esse le figure del numinoso tornano nel mondo, manifestandosi nelle numerose forme di “seconda religiosità” (Spengler) proprie del contemporaneo, ma anche nella volontà di numerosi artisti, sempre meno outsider, talora dotati di grande riconoscibilità mediatica, di favorire la manifestazione estetica del sacro, ricostruendo i ponti con forme di metafisica verticali e superando l’interregno del nichilismo. L’artista riconquista dunque il ruolo di mago, teurgo, iniziato, psicopompo, sciamano. Assurge a temerario costruttore di templi per il deus adveniens. Proprio per trattare tale emergenza mitico-simbolica in seno all’arte contemporanea, ricostruendone la genesi storico-culturale e dando voce ad artisti che in tale percorso si riconoscono – dalla pittura alla scultura, passando per la fotografia e le performances – è stato concepito “DissacrArte”.

 

2 La nozione di Antimoderni si presta a qualche resistenza. Ma chi sono oggi gli antimoderni?

Suppongo che il concetto si sia imposto alla sua attenzione in quanto costituisce il sottotitolo della rivista “Antarès. Prospettive antimoderne”, di cui il fascicolo monografico “DissacrArte” rappresenta la ventesima uscita.

L’antimodernismo è una variegata famiglia di pensiero che si è cristallizzata in forma oppositiva rispetto alle istanze promosse dall’ideologia modernista (ossia la versione radicale dell’ideologia promotrice del Moderno, con la sua complementare costellazione concettuale – progressismo, materialismo, liberalismo, individualismo, scientismo). Tale nozione è stata tematizzata in modo eccellente da Antoine Compagnon nel suo celebre “Gli antimoderni”. Qui Compagnon evidenzia come, diversamente dal tradizionalismo o conservatorismo, sempre esistiti, secondo declinazioni diverse, nella storia europea, l’antimodernismo sorge, come famiglia di pensiero, precisamente in contrapposizione agli ideali della Rivoluzione francese, ma secondo una visione del mondo tanto nuova, radicale, e a suo modo avanguardista, da qualificarsi paradossalmente come ultra-moderna. Antimoderni, secondo questa accezione, furono in Francia J. de Maistre, C. Baudelaire, L. Bloy, D. la Rochelle, L.-F. Céline, M. Blanchot, l’intera Rivoluzione Conservatrice austriaca e tedesca, i migliori esponenti del Pensiero di Tradizione (fra tutti, J. Evola), pensatori inattuali (G. Papini, M. Eliade, C. Campo), ma anche grandi poeti (T.S. Eliot, E. Pound), narratori (K. Hamsun, Y. Mishima) e indagatori del fantastico (J.L. Borges, J.R.R. Tolkien, H.P. Lovecraft). Molti di loro, autori di riferimento di “Antarès”, vuoi in quanto oggetto di studio, vuoi quali riferimenti indispensabili all’elaborazione del metodo critico adottato nella nostra ormai ultradecennale storia editoriale.

Essere antimoderni oggi significa ricollegarsi a questa ricca tradizione di pensiero per riattualizzarne il magistero. Secondo un processo che oggi, a mio avviso, richiede particolare impegno e forza creativa, innanzitutto vista l’epocale mutazione di scenario che abbiamo già parzialmente evocato. Se la modernità, infatti, ha fatto bancarotta, un pensiero critico aggiornato deve spingersi sino al confronto con le nuove sfide poste dal pensiero postmoderno. Oggi, forse, più che di antimodernismo servirebbe ragionare su di un postmodernismo realmente “altro” per spirito, orizzonti e vocazione.

 

3 Parlando ancora di antimoderni, secondo lo scrittore francese Chateaubriand, la democrazia è il naturale prolungamento (moderato e normalizzato) della Rivoluzione. Cosa ne pensa, soprattutto in riferimento alle attuali democrazie, soprattutto europee?

La riflessione di Chateaubriand riflette la tesi, tipicamente antimoderna, sulla genealogia dell’assetto politico moderno, inteso appunto come l’istituzionalizzazione dei “sacri princìpi dell’89”. I valori che la Rivoluzione avrebbe opposto agli ordinamenti tradizionali della civiltà europea si sarebbero configurati in un assetto in cui la centralità della già rousseauviana “volontà popolare” assurge a fonte e legittimazione di ogni forma di autorità politica. Dalla democrazia, però, notava già Platone nella sua teoria sulle forme di governo, sorge la tirannia: e, in effetti, forme di riduzione della rilevanza e libertà concrete del popolo hanno variamente contraddistinto gli sviluppi storici dei sistemi democratici – dal cesarismo o bonapartismo ai totalitarismi novecenteschi (anche d’impronta collettivistica), sino alle contemporanee forme di controllo sociale promosse dal “capitalismo della sorveglianza” (S. Zuboff) o dal “capitalismo politico” (A. Aresu). Ecco che così la Rivoluzione torna a manifestarsi nella sua componente di radicalità e violenza giacobina, mentre simultaneamente “si suicida” (per usare la famosa immagine di A. Del Noce) venendo meno alla propria vocazione ideale trasformativa ed emancipatrice. L’alienazione, che il progetto politico della modernità mirava a superare, diventa il cuore di tenebra del modello democratico. La tragicità di questa dinamica è oggi riposta nella difficoltà di pensare anche solo in termini concettuali a modelli radicalmente alternativi a fronte dell’investitura della democrazia rappresentativa, da parte del “realismo capitalista” (M. Fisher), a sistema politico archetipico del paradigma dominante.

È peraltro da precisare come la politologia abbia variamente mostrato la pluralità dei modelli di “democrazia”. Quello contrastato nella tradizione antimoderna si riferisce principalmente alla democrazia moderna, parlamentare, repubblicana e rappresentativa. Modelli di ristrutturazione del paradigma democratico in senso partecipativo, corporativo, comunitarista e olistico, sono state proposte nell’ultimo secolo da svariati autori – da Othmar Spann a Walter Heinrich, passando per Emmanuel Mounier e Simone Weil e arrivando ad Alain de Benoist, Costanzo Preve e Alasdair MacIntyre, solo per citarne alcuni. Teorie tutt’oggi sfidanti, meritevoli di riflessioni.

 

4 Nel 1750 Baumgarten pubblica il primo volume dell’Estetica, dove viene messa a punto una nuova disciplina nata da meditazioni sulla specificità della poesia e sulla peculiare perfezione delle sue rappresentazioni sensibili. Secondo lei il campo della sensibilità possiede davvero una propria peculiare razionalità e strutturazione?

Dal mio punto di vista, è corretto intendere il dominio della sensibilità come una sfera della percezione fondamentale anche sul piano conoscitivo. In questa prospettiva, è fin troppo banale notare la differenza che un’esperienza sensibile riveste rispetto ad una esperienza intellettiva puramente concettuale. Più stimolante è invece, anche sulla scia di Baumgarten, riflettere sul valore non esclusivamente percettivo, ma altamente gnoseologico della sensibilità, indagandone caratteristiche, limiti e condizioni di possibilità.

Baumgarten la definiva “gnoseologia inferior”, i romantici l’hanno innalzata a “gnoseologia superior”, l’ermeneutica filosofica ha rilevato la sua stretta interrelazione con ogni atto di comprensione.

Potremmo così asserire, andando oltre le posizioni contrapposte di tipo soggettivista e oggettivista, che il campo della sensibilità media concretamente tra coscienza e mondo, nonché tra il flusso della vita e delle percezioni, cui mai possiamo avere accesso in modo totalmente diretto, e i dispositivi che strutturano la conoscenza e danno forma comunicabile alle percezioni. In questo senso l’arte, che si alimenta di immagini sensibili in-formate da idee, al contempo precede ed eccede la sfera del logos, permette di pensare una alternativa ai paradigmi del razionalismo e dell’empirismo, rifiutando il dualismo ontologico e pensando la realtà in termini correlativi e analogici.

 

5 L’estetica oggi ha a che fare sempre di più con la confusione o essa è la chiarificazione di ciò che deve rimanere confuso? Come riusciamo a riaccordarci alla realtà?

L’estetica, dal mio punto di vista, è la paradossale ma fertile indagine di quella soglia sensibile che è sempre apertura al mistero, al “totalmente altro”, all’eccedenza di senso, ma che mai è capace di risolverne totalmente il significato. È, per citare immagini jüngeriane, un “avvicinamento” alle “irradiazioni” che dallo sfondo originario promanano mediante forme, segni, immagini simboliche. È, insomma, cura dell’enigma. La confusione può essere dunque sfrondata, ma solo per giungere ad una dinamicità ulteriore, che ci rammenta il carattere energetico e multiforme del reale.

 

6 Nell’epoca dell’iperinformazione, la vasta accessibilità alle notizie e l’enorme presenza di informazioni istantanee hanno dato il via libera alla cosiddetta ‘corsa al click’. Come si può ritornare alla qualità formale di un articolo? Come scovare la verità tra fake news e polarizzazioni?

Il tema è vastissimo e meriterebbe considerazioni ben più vaste, che un ampio dibattito contemporaneo sta tentando di elaborare, spesso stretto nella morsa di istanze conflittuali – i conseguimenti teoretici, da un lato, e le dinamiche economico-tecnologiche, dall’altro lato.

Mi limito a notare, anche sulla scorta delle riflessioni proposte sulla postmodernità, che oggi forse non ha più senso, né a livello teorico né operativo, distinguere nettamente, nell’ambito della comunicazione, fra “verità” e “fake news”, quasi che queste fossero strutture ontologiche determinate, bensì lavorare, con rispetto deontologico e maturità intellettuale, all’elaborazione di forme comunicative improntate ad una persuasività responsabile, culturalmente fondata e orientata prospetticamente verso la costruzione di una conoscenza articolata e condivisa. Nell’epoca dell’informazione le notizie si proiettano nell’iperspazio digitale creando nuove narrazioni. Operano, per citare Nick Land, come “iperstizioni”: la loro verità coincide con la loro performatività. Un professionista della comunicazione dovrebbe, a mio avviso, fare i conti con questa nuova geografia digitale, producendo “iperstizioni” alternative al fine di delineare modelli culturali ulteriori, fondati non sulla retorica astratta o sull’interesse dei centri di potere dominanti, bensì sulla costruzione di spazi di pensiero critico auspicabilmente dotati di attrattiva nei riguardi del pubblico e di una potenziale performatività concreta sul piano culturale, sociale e politico.

7 Tre autori che hanno segnato la sua formazione personale e accademica

Martin Heidegger, da cui ho appreso la forza radicale del pensiero e la concretezza abissale della filosofia. Ernst Jünger, che mi ha insegnato a cogliere nelle forme della storia e della natura le epifanie di un mondo sovrasensibile caleidoscopico, profondo per senso e sacralità. Mircea Eliade, che mi ha comunicato la passione per il linguaggio dei simboli e le tradizioni religiose, mostrandone l’importanza per decifrare la nostra contemporaneità.

About Annalina Grasso

Giornalista, social media manager e blogger campana. Laureata in lettere e filologia, master in arte. Amo il cinema, l'arte, la musica, la letteratura, in particolare quella russa, francese e italiana. Collaboro con L'Identità, exlibris e Sharing TV

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