Italo Calvino è senza dubbio uno degli scrittori più inesauribili e apprezzati del ‘900. Personalità di enorme rilevanza artistica, sociale nonché politica e infaticabile ricercatore della verità, si è posto spesso fuori dagli schemi non solo nella sperimentazione letteraria. A tal proposito uno dei suoi libri forse più apprezzati e conosciuti, insieme al Barone rampante e al Visconte dimezzato, è senz’altro Le città invisibili, romanzo pubblicato in prima edizione nel 1972 per gli editori Einaudi.
Un racconto tra i fondamentali della cosiddetta letteratura combinatoria che alla spicciola potrebbe essere descritto come un fantasioso diario di viaggio. Il protagonista delle vicende narrate in questo libro è Marco Polo, il viaggiatore e mercante veneziano vissuto a tra l’ultimo decennio del 1200 e il terzo decennio del 1300 conosciuto ai più per la sua opera letteraria più famosa Il Milione.
Da sempre ammantato di una certa aura mistica stravagante e misteriosa (a lui si attribuisce l’introduzione del gioco delle carte a Venezia e pare fosse amico intimo dell’eretico Pietro d’Albino), sul celebre giramondo si è anche favoleggiato di una sua possibile affiliazione templare mentre qualcuno sostiene sia stato un agente segreto al servizio del Papa Gregorio X, inviato in oriente per convertire l’imperatore dei tartari Kublai Khan alla causa dei cristiani in Terra Santa in chiave anti islamica.
Proprio Kublai Khan è l’interlocutore privilegiato al quale Polo svela i suoi rendiconti onirici conditi di aneddoti fiabeschi sulle 55 città raccolte nei 9 capitoli del libro di Calvino e visitate dal veneziano nel corso dei suoi lunghi pellegrinaggi in giro per il mondo. All’imperatore viene narrato di luoghi fantastici e surreali frutto della mente del viaggiatore che pesca nel suo immaginario tracciando una sorta di mappa del suo universo chimerico.
Nessuna delle città raccontate nel libro ha infatti un corrispettivo reale, le scene di vita esotica e le avventure vissute da Polo sono infatti solo il riflesso della vivace mente del narratore che senz’altro esagera o meglio arricchisce quello che probabilmente ha in parte anche vissuto.
Si è già scritto molto sul fatto che Polo non abbia effettivamente visitato all’epoca alcuni luoghi narrati nel Milione e forse, quando buttava giù le prime bozze del romanzo, lo stesso Calvino non doveva essere proprio del tutto convinto dell’autenticità di alcune parti del capolavoro del celebre veneziano ramingo.
Dubbi fondati o meno resta il fatto che le sue probabili esagerazioni ed i suoi miraggi forniscono l’ideale punto di partenza di questo viaggio nell’assurdo che l’impareggiabile penna dell’autore trasforma in pura arte letteraria facendo diventare reale ciò che mai potrebbe esserlo. In fondo il potere dell’immaginazione aiuta a combattere le disillusioni della vita di tutti i giorni, basta infatti chiudere gli occhi per ritrovarsi catapultati “nell’habitat” a noi più congeniale che è anche un po’ quello che sembra confermare il Marco Polo “calviniano” in uno dei passi forse più significativi dell’opera: “Se ti dico che la città a cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla”.
Il concetto di evasione dalla realtà e di “svago perpetuo” delle Città Invisibili è rafforzata anche dalla struttura stessa del romanzo che si presenta come un uroboros di racconti nel quale i capitoli formano un ideale continuum. Non è mai ben chiaro né l’inizio né la fine del racconto e grazie a questo escamotage il lettore balza agilmente nella complessa ragnatela intessuta da Calvino, senza rischiare di perdere il senso del racconto pur leggendo capitoli a caso.
In una conferenza del 1983 tenuta alla Columbia University di New York a fu lo stesso autore a confermare la volontà di voler rendere questo libro fluido e “liberamente” leggibile: “questo libro è fatto a poliedro, e di conclusioni ne ha un po’ dappertutto, scritte lungo tutti i suoi spigoli”.
Una delle possibili chiavi di lettura del libro è quello dell’immaginazione via di fuga, ancora di salvezza, rifugio o destinazione nel quale è possibile viaggiare dando sfogo al proprio malessere esistenziale.