La convinzione che il blues fosse roba per pochi eletti uomini di colore era ancora molto forte nei primi anni ’60. Mostri sacri come B.B.King, Little Walter, Robert Johnson, Howlin Wolf, Sonny Boy Williamson, erano visti con ammirazione e devozione da schiere di giovani musicisti che tentavano i primi timidi approcci agli strumenti. La maestria tecnica, la vocalità implorante e grezza, i riff micidiali e perfino i tormenti interiori erano visti come qualità intrinseche, inimitabili, perfino difficilmente comprensibili da un pubblico bianco. Essere uomini di blues era una faccenda terribilmente seria. Le cose cambiano verso la metà degli anni ’60, quando John Mayall, talentuoso polistrumentista britannico, solo sulla carta nato a Macclesfield, intuisce che può esserci un approccio diverso alla musica dell’anima.
Introducendo, infatti, una macchina ritmica poderosa e mescolando la purezza del Delta col beat anglosassone è possibile ottenere un suono nuovo, fresco, coinvolgente senza scempiare o scimmiottare le leggende che tanto ammiravano. Nasce così il British Blues. Per far ciò sono tuttavia necessari musicisti forti, ma veramente forti, non tanto dal punto di vista strettamente tecnico quanto per la capacità di tirar fuori dal proprio strumento una timbrica unica, un sound inimitabile, un colore inconfondibile. Per fortuna il talento è sparso a piene mani nell’Inghilterra dell’epoca e Mayall si dimostra, negli anni, uno straordinario talent scout. Arruola Hugie Flint alla batteria e John McVie, che vanno a costituire la spina dorsale dei Blues Brakers e, per quanto riguarda la chitarra, si rivolge al giovane più promettente in circolazione: Eric Clapton. Il futuro Manolenta, in quegli anni, è alla costante ricerca di se stesso; tanto fenomenale alla sei corde quanto caratterialmente scostante e imprevedibile. Dimissionario dagli Yardbirds per inconciliabili divergenze artistiche, incontra Mayall nell’aprile del ’65 che lo convince ad aderire al nuovo progetto.
“Voleva solo suonare la sua chitarra” (John Mayall su Eric Clapton)
Nonostante le difficoltà dovute principalmente all’irrequietezza dei vari membri (Clapton abbandona il gruppo per due mesi per andare in tournee con i Glands; McVie dal canto suo se ne va per sei mesi), i Blues Brakers riescono in un solo giorno ad incidere un capolavoro. Negli studi della Decca, in un giorno d’aprile del 1966, si compie il miracolo. Forte del feeling acquisito sul campo in numerose esibizioni live ed interminabili jam session, la band registra tutto in presa diretta, senza sovra incisioni o trucchetti di sorta, riuscendo ad intrappolare sul nastro memorabili versioni di classici del blues e pezzi originali. Le titaniche rivisitazioni di All Your Love di Willie Dixon, di Hideway di Freddie King, di Ramblin’ On My Mind di Robert Johnson, di It Ain’t Right di Little Walter, si accompagnano alle splendide composizioni originali di Mayall quali Little Girl o Key To Love.
Il lavoro di Clapton è semplicemente stratosferico (tanto da ispirare i famosi graffiti con su scritto “Clapton is God”); il suono della sua Les Paul è il più potente mai udito fino ad allora ed i suoi fraseggi sono folgoranti. Flint e McVie irrobustiscono ogni brano concedendosi estemporanee variazioni sul tema (basta ascoltare il torrenziale assolo di batteria sulla strepitosa cover di What’d I Say di Ray Charles). Il resto lo fa Mayall. Canta, compone, suona l’organo, il piano, l’armonica, arrangia magistralmente i brani (prova ne sia la clamorosa versione di Another Man) e dirige il gruppo durante quelle infuocate session. Riesce ad ottenere il massimo dai compagni e da se stesso. Il successo è inevitabile. L’album raggiungerà il sesto posto della classifica inglese e diventerà ben presto un classico. Tuttavia l’equilibrio all’interno della band sottile e fragilissimo.
Clapton stancatosi subito del progetto (basta vedere la foto della copertina in cui appare particolarmente poco collaborativo) se ne andrà di li a poco per formare i Cream con Jack Bruce e Ginger Baker. Flint verrà sostituito da Ashley Dunbar mentre McVie abbandonerà dopo pochi anni per tentare nuove esperienze con i Fleetwood Mac. Mayall rimarrà il perno dei Blues Brakers intorno al quale ruoteranno musicisti leggendari quali Peter Green, Mick Taylor, Blue Mitchell e Red Hollway con i quali inciderà altri capolavori, ad esempio A Hard Road o Crusade, ma questo, senz’altro, rimarrà il lavoro di una vita, l’opus magnum con il quale è entrato di diritto nella storia di ben due generi musicali. Quest’album così precario, semplice ma allo stesso tempo incredibilmente affascinante è riuscito nell’impresa di sdoganare definitivamente il blues nero presso il pubblico bianco rendendolo improvvisamente familiare, vicino, riproducibile e divertente. E non è cosa da poco.