Non si può comprendere ed amare il rock senza un tuffo nel passato, splendido ed inquietante, che faccia comprendere quale sia la vera natura della musica che ha profondamente scosso l’ultimo mezzo secolo. Come tutti i viaggi a ritroso può spesso apparire confuso, nebuloso, leggendario, ricco di omissioni ed eccessi di fantasia ma senza dubbio imprescindibile e con una buona dose di verità alle spalle. Per capire dove tutto comincia bisogna tornare alla fine degli anni ’30 e precisamente nei sei mesi che vanno dal novembre 1936 al giugno 1937, in Texas quando un oscuro chitarrista di nome Robert Johnson per la prima volta in vita sua decide di cantare davanti ad un microfono cambiando per sempre e definitivamente il corso degli eventi. Ventinove brani immortalati su cera, unica testimonianza di una vita artistica passata tra bettole e angoli di strada, che restituiscono una voce in grado di riflettere i tormenti dell’anima ed una tecnica chitarristica scaturita direttamente dalle viscere dell’inferno. Gocce di splendore che narrano l’incredibile vicenda umana e professionale di un uomo la cui vita ha assunto sempre risvolti mitici in bilico tra sogno e realtà, dannazione e redenzione. Perfino quando era ancora in vita Robert Johnson da Hezelhurst, Mississippi, era circondato da un alone di mistero. La vita dissoluta, l’alcolismo, la povertà, il talento mostruoso, la capacità di ipnotizzare con la musica le platee ne hanno accresciuto la fama di artista maledetto. Le scarse notizie biografiche, unitamente ad una morte prematura e “misteriosa” lo hanno elevato al ruolo di leggenda.
«Per me Robert Johnson è il più importante musicista blues mai vissuto. […] Non ho mai trovato nulla di più profondamente intenso. La sua musica rimane il pianto più straziante che penso si possa riscontrare nella voce umana». (Eric Clapton)
E’ arcinoto l’episodio del “patto col Diavolo” attraverso il quale, secondo i racconti, avrebbe ottenuto in cambio dell’anima l’incredibile tecnica chitarristica e la capacità di cantare come un angelo ferito. Sono noti altresì il carattere ribelle ed irascibile del musicista come pure la sua forte passione per le donne e per l’alcol che gli hanno procurato non pochi guai nel corso degli anni. E’ ovvio che c’è una spiegazione molto meno romantica per questa sua perizia strumentale (pare fosse stato un certo Ike Zinnemann ad insegnargli tutti i segreti della sei corde) come pure c’è una motivazione meno fantasiosa in merito alla sua misteriosa dipartita (pare sia stato un barista geloso ad avvelenarlo) ma senza dubbio è molto più affascinante pensare ad uno squattrinato musicista che, a notte fonda, incontra ad un quadrivio Satana in persona il quale gli concede, al prezzo dell’eterna dannazione, fama e gloria imperiture. Anche lo stesso Johnson la pensava così, tanto che nelle sue canzoni, non ha fatto altro che confermare ed alimentare questa diceria, autoproclamandosi, di fatto, “chitarrista del Diavolo”.
Le liriche ed i titoli dei suoi pezzi parlano chiaro: Me And The Devil Blues, Hellhound On My Trail, Crossroad Blues, If I Had Possession Over Judgement Day, contengono evidenti riferimenti al demonio, alla possessione, all’apocalisse con chiari indizi e rimandi al famoso patto. Ma in Johnson non c’è solo questo: c’è l’amore tormentato (Love In Vain Blues, Little Queen Of Spades, Kind Hearted Woman Blues), la durezza di una vita errabonda (Ramblin’ On My Mind, Sweet Home Chicago, I’m A Steady Rollin’ Man), espliciti riferimenti sessuali (Come On In My Kitchen, Dead Shrimp Blues, I Believe I’ll Dust My Broom), sentiti omaggi ai maestri (Malted Milk, 32-20 Blues, Walkin Blues) e standard di grande successo (From Four Til Late, Traveling Riverside Blues, Stop Breaking Down Blues, Stones In My Passway). Una poliedricità tematica mai vista fino ad allora che rende questo pugno di canzoni il “manuale del Blues”, in cui vengono toccate un po’ tutte le tematiche principali tipiche della musica dell’anima. Su tutto chiaramente giganteggia la chitarra suonata con uno stile insuperato ed insuperabile.
Le dita di Johnson volano sulla tastiera segnando il ritmo e, nel contempo, la melodia del brano andando quindi ad incastrarsi col lamento lancinante della voce. I riff sono resi o con l’ausilio del bottleneck che contribuisce a rendere il suono ancora più fluido e dolente accentuando così il pathos dell’esecuzione o con il fingerpicking per aumentarne efficacia e precisione. Esecuzioni incredibili sulle quali si sono scervellati teorici e critici musicali pur di fornire una spiegazione plausibile a tanto splendore. Si è detto che i brani sono stati accelerati in post produzione, che i chitarristi erano due e del secondo non è stato tramandato il nome, insomma una vero e proprio brainstorming che però non è servito a chiarire completamente il segreto di tale sovrumana abilità. Una cosa è sicura, miriadi di musicisti si sono spaccati le dita cercando di riprodurre almeno un decimo del suono qui intrappolato. Gente come Eric Clapton, Keith Richards, Cream, Led Zeppelin, White Stripes, Blues, Blues Brothers, hanno inserito nel loro repertorio uno o più di questi brani rivisitandoli e riarrangiandoli sia per adattarli ai mutati gusti del pubblico sia per l’impossibilità di restituirne la forza e la bellezza originaria. Tutto ciò ha contribuito a rendere questi 29 pezzi immortali e decisamente popolari anche a distanza di tantissimi anni ma prova anche un’altra cosa: nessuno suona o ha mai suonato come Robert Johnson da Hezelhurst, Mississipi, il “chitarrista del Diavolo”, il Re del Delta Blues.