I tre racconti che costituiscono l’opera Nell’Inferno, editi in un volume dalla casa editrice Pan di lettere, di Arturo Onofri, poeta metafisico e scrittore (1885-1928) rappresentano delle autentiche rivelazioni. Non perché Onofri è un letterato memorabile, che ha in modo inequivocabile segnato il ‘900 per l’originalità e la qualità della sua scrittura.
Dell’importanza di Onofri ne è la controprova che una esperta italianista come Magda Vigilante ha dedicato una prefazione di quaranta pagine, facendo una disamina accurata dei racconti.
I tre racconti di Onofri
Il primo racconto di Onofri si intitola “Il pollice esercitato” (che sta a significare il talento coltivato) e tratta il tema della creazione artistica e della ispirazione con tutte le difficoltà del caso (la creta non è mai molle, indipendentemente dal fatto che si cerchi la mimesi, la trasfigurazione, la creazione ex novo).
Come ci ricorda la Vigilante le idee in questione non sono quelle dell’Iperuranio, ma sono spiritelli maligni. Forse il poeta vuole suggerirci che la vera creatività spetta alle donne oppure solo a madre natura: forse solo loro hanno la vera capacità di generare. Le stesse idee sono signore algide e scostanti.
Come sostiene qualcuno le idee veramente innovative ed originali scaturirebbero in modo casuale secondo i neuroscienziati e che addirittura la loro frequenza potrebbe essere descritta dalla distribuzione statistica di Poisson: semplificando ogni idea sarebbe un evento raro e fortuito nelle menti più creative.
Il tema del doppio
Ecco quindi la fatica di Sisifo della creazione artistica. Insomma Onofri aveva anticipato i tempi. Il secondo intitolato “I due” mette in scena sia il tema del doppio che quello psicologico del falso Sé (più che dell’ Ombra junghiana).
Alla fine viene da chiedersi chi sia il personaggio autentico, se la figura in carne ed ossa oppure il sembiante. Uno è il Sé autentico e l’altro è la maschera sociale, colui che rispetta codici e convenzioni borghesi.
Il terzo intitolato “Inferno” esamina il perturbante in senso freudiano. Il protagonista prova allo stesso tempo repulsione ed attrazione verso la donna, descritta inizialmente come orrida. Il lettore viene spiazzato più volte con alcuni straniamenti, con alcuni colpi di scena.
Perché una scena sia effettivamente perturbante per Freud deve essere ambivalente emotivamente, deve essere familiare ed estranea al contempo.
Tra simbolismo e decadentismo
Onofri si dimostra un artista enigmatico, simbolista, decadente, esoterico (non a caso studiò l’antroposofia steineriana) in questi tre racconti, a cui lasciamo libera interpretazione agli acquirenti del volume; in questa sede ho voluto solo dare delle indicazioni di massima.
D’altronde l’arte si caratterizza per la sua polisemia ed ambiguità. Ognuno quindi può dargli il suo significato. Onofri nei suoi racconti accosta elevazione spirituale e spavento, grazia e solitudine, levità ed angoscia, orfismo e scissione, purezza e terribilità. Sulla scena si affaccia prepotente il mistero, l’irrazionale sotto le forme delle ossessioni, delle paure.
Senza mai cadere nell’intimismo c’è una propensione innata alla penetrazione psicologica. Sono ineludibili lo sgomento e la sorpresa dei protagonisti, che sono tra la veglia ed il sonno, quasi in uno stato di reverie ed hanno delle apparizioni sconvolgenti. Onofri dà forma al materiale informe dell’onirico.
Una prosa suggestiva e personale
Getta un ponte tra conscio ed inconscio, trovando archetipi senza scandagliare oscenamente i segreti recessi dell’anima. Lavora di cesello e l’oscuro non è mai incoerente né incongruo. La sua prosa – per quanto subisce echi, risonanze, influssi- è suggestiva e mai suggestionata da nessun altro autore.
Centrali sono le visioni e le analogie di Onofri. Non imita né prende a prestito alcunché. Piuttosto si rifà sporadicamente ed episodicamente alla tradizione. Per dirla alla Peirce il poeta era mosso da autentico amore per la conoscenza, era all’instancabile ricerca della verità.
Non è forse un caso che amò diverse dottrine, ma non divenne mai dottrinario? Ed ora veniamo all’inghippo: quella di Onofri è una prosa poetica? Ed ancora si può cercare un discrimine tra poesia e prosa poetica?
Ora si deve sgomberare il campo da ogni possibile fraintendimento: è impossibile fare una distinzione oggettiva tra poesie in versi e prose poetiche. Di distinzioni se ne possono fare ma sono solo soggettive e stucchevoli.
La relazione tra prosa e poesia
È sempre arduo stabilire una relazione tra prosa e poesia oppure una linea di confine. C’è chi sostiene che non vi sia più una grande differenza tra i due generi e che per vendere più copie molti poeti farebbero meglio a non andare a capo. Condannare la prosa poetica può voler dire giudicare negativamente i capolavori di Pagliarani e Bertolucci.
Perché condannare questo ibridismo? Per quale motivo? Inoltre bisogna ricordare che per i puristi del verso scrivere in versi liberi significa andare a capo arbitrariamente ed è considerato alla stessa stregua dello scrivere in prosa.
Il verso libero è il lasciapassare e allo stesso tempo la diretta conseguenza della prosa poetica. È meglio non mettere steccati e paletti. Nel secondo novecento non l’hanno fatto. È sempre meglio non fare restrizioni di nessuna sorta e permettere ogni tipo di libertà. Onofri ne è stato l’esempio lampante ed ha dimostrato tutta la sua versatilità.
Un poeta deve avere sempre la massima libertà espressiva. Di conseguenza può utilizzare qualsiasi registro espressivo, che deve essere considerato comunque espressione artistica. Può anche adottare il pluristilismo.
La poesia in versi liberi può essere poesia come anche la prosa poetica può essere allo stesso tempo poesia. Tutto il resto è polemica sterile fatta per amor della polemica.
Forse bisognerebbe semplicemente distinguere solo ciò emoziona da ciò che non lo fa, ciò che fa pensare da ciò che non lo fa. I tre racconti di Onofri colpiscono favorevolmente in tal senso.
Un aspetto che contraddistingue la sua scrittura è il fatto che, nonostante le innumerevoli variazioni della lingua italiana dagli anni di stesura ad oggi, essa sia ancora comprensibile e chiara senza l’ausilio di alcuna nota: ciò dimostra la capacità comunicativa dell’Onofri.
Quella del poeta romano è ad ogni modo una prosa lirica, è quella che un tempo veniva chiamata prosa d’arte. Per tutte queste ragioni il volume meriterebbe di essere letto.
Di Davide Morelli