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“Il codice di Perelà”: il Cristo mancato di Aldo Palazzeschi?

Fiaba o romanzo? È questa la prima domanda che ci dovvrebbe venire in mente, avendo tra le mani “Il codice Perelà” di Aldo Palazzeschi. È lo stesso autore che ci avverte, in una frase riporatata in tutti commenti di tutte le edizioni: “Perelà è la mia favola aerea, il punto più alto della mia fantasia”. L’opera che ci troviamo davanti non può essere però una fiaba, almeno strutturalmente. Apparso nel 1911, con il sottotitolo di “romanzo futurista”, subito si presenta per quello che effettivamente è: dialoghi brevi e serrati, assenza di descrizioni, assenza di una qualsiasi voce narrante, ambientazioni fisiche appena accennate.

Le vicende di quest’uomo, fatto di fumo, che per trentatrè anni (età casuale?) ha vissuto in un camino, ascoltando tre vecchie che parlavano di filosofia (“una filosofia leggera, però”), imparando molto di come funziona il mondo, appaiono non certo prive di un certo stimolo al divertissment puro e frivolo. Non sempre, nel corso dell’opera, sarà possibile compiere una esegesi dei gesti di cui il protagonista si renderà protagonista. Il fatto che il Re gli affidi addirittura la redazione di un codice e che tutte le varie signore gli vogliano narrare le loro storie, quasi ritenendolo un redivivo arbitro del gusto di memoria latina, fanno forse pensare che nel romanzo Perelà debba svolgere un ruolo speciale, che, proprio in virtù della sua natura, gode tra gli uomini di una ammirazione e di una stima infinita. In questo personaggio, prima che in questo romanzo, la critica ci ha visto molte cose: l’interpretazione che più incuriosice, e su cui è meritevole una riflessione, è quella che fa corrispondere Perelà al Cristo. Eccone quelle che possono essere delle analogie.

Perelà sarà portato davanti a una corte e condannato, proprio come Cristo: sarà condannato per aver fatto credere di essere in potenza di fare cose grandiose, quando in realtà non è stato cosi. Anzi, ha indotto al suicidio un uomo. Durante il processo la condanna è unanime: come era stato esaltato cosi ora viene sprofondato con le considerazioni più meschine da parte dei testimoni. Forse un parallelo con la vicenda del Cristo, prima osannato poi condannato dagli stessi uomini? Il Cristo era capace di miracoli, il Perelà  no, ma è ricoperto della stessa aura di straordinarietà: allora forse sarebbe più corretto parlare di un Cristo mancato?

La condanna decisa è quella della segregazione nel Calleio, su una altura brulla e arida: e questo solo per intercessione del Re, la “massa” (come è scritto nel romanzo), ne voleva l’uccisione. È in questo punto che la narrazione sfuggente ora assume dei tratti quasi neo realistici, con le descrizioni dei luoghi e dei comportamenti delle persone, ansiose di vedere arrivare il condannato nel suo “carcere”. Imprigionare un uomo fatto di fumo. È possibile? Come presto “la massa” si rende conto, non è possibile. Perelà non si troverà, è fuggito attraverso le sbarre. Nessuno sa dove sia andato.
Nell’ultimo squarcio di narrazione, tornata stavolta ad essere affidata di nuovo ai pensieri e alle parole della “massa”, intuiamo che tanti grandi aquile solcano il cielo per “strappare a Dio il velo del suo mistero”. Oppure sono “degli uomini che vanno a consegnare di propria mano la loro anima a Dio?” Non si riesce a capire cosa vediamo nel cielo, ma l’obiettivo di chiunque stia volando è quello di andare a “cercare il signor Perelà”.

Come il Cristo, anche “Sua Leggerezza” Perelà è asceso infine al cielo: resta da chiedersi forse cosa lo abbia spinto a scendere tra gli uomini, che hanno dimostrato, per la seconda volta, di non sapersi tener stretto un Messia. Anche stavolta li avrà perdonati?
“Il codice di Perelà” è un romanzo ricco e variegato che affronta la realtà in termini favolistici e affidandosi ad un’allegoria errmetica che fanno sorgere spontanea la domanda: Perelà è un antiromanzo ambiziosamente cristologico?

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