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Il Castello

“Il Castello”: il trionfo dell’impotenza umana

“Il mondo del capitalismo odierno come inferno e l’impotenza di tutto ciò che è umano davanti alla potenza di questo inferno, costituisce il contenuto dell’opera di Kafka”. (G. Lukàcs, “Significato attuale del realismo critico”)

Il romanzo Il Castello, scritto intorno al 1922 e pubblicato postumo da Brod nel 1926, è l’ultimo dei tre romanzi del grande scrittore praghese Franz Kafka. Rimasto incompiuto, questa oscura opera è incentrata sui temi della burocrazia, della legge come ordine globale, dell’alienazione e della frustrazione incessante in cui versa l’uomo che tenta di integrarsi in un sistema che lo invita e lo allontana contemporaneamente.

Kafka ha lavorato con intensità al Castello nel 1922 anche se almeno l’idea del romanzo risale all’anno precedente. Uno sguardo retrospettivo alle opere di maggior rilievo culturale apparse in questo periodo serve a rilevare le divergenze e a confermare l’unicità di Kafka rispetto ai suoi contemporanei. La Cecoslovacchia, sorta dalle rovine dell’impero asburgico, non è sentita dallo scrittore come la nuova patria democratica, capace di rimuovere il suo senso di estraneità dal mondo. In tutta l’Europa centrale dilaga l’inflazione che toccherà durante la Repubblica di Weimar, punte inimmaginabili. Inutile tuttavia cercare nel Castello un’eco del presente se non in quel senso angoscioso di precarietà che pervade quotidianamente l’esistenza di Kafka. Nel territorio linguistico tedesco, l’espressionismo cede il posto al nuovo stile che sarà denominato della Nuova obiettività, ma seguito da personalità minori come Werfel e Carossa.

Brod pubblica Il Castello un anno dopo Il Processo e un anno prima di America, secondo un ordine che non corrisponde alla cronologia delle rispettive stesure (America, Il processo, Il Castello); il romanzo del 1926 presenta un poscritto che sostiene una tesi teologica e una nota che spiega i criteri dell’edizione. Kafka aveva lasciato il manoscritto senza titolo ma lo aveva sempre denominato Il Castello rimasto incompiuto a causa di alcune circostanze sfavorevoli tra le quali l’aggravarsi della malattia dell’autore, la fine della relazione con Milena, ispiratrice del personaggio di Frieda e la perenne insoddisfazione di fronte ai propri risultati che hanno sempre gettato Kafka nello sconforto.

Durante una gelida notte il protagonista, semplicemente indicato nel romanzo con l’iniziale K., giunge in un villaggio sovrastato dalla figura misteriosa di un Castello. Cercando ospitalità nell’osteria, egli sostiene d’essere un agrimensore e di essere stato invitato dal Conte Westwest, per svolgervi dei lavori. Dopo alcune incomprensioni iniziali fra K. e gli occupanti dell’osteria, K. viene ufficialmente informato di essere stato assunto dal Conte e che il suo diretto superiore sarà il Sindaco. K. conosce anche una donna, Frieda, cameriera e amante del funzionario Klamm (enigmatico antagonista principale di K.), la quale consente a K. di spiare il funzionario da un apposito buco mentre sta riposando in una stanza riservata. Frieda lascerà il suo amante per seguire K. Al risveglio K. conosce Pepi, una serva che aveva preso il posto di Frieda al banco di mescita ma che ora, purtroppo, sarebbe tornata a servire come cameriera. Il romanzo si interrompe bruscamente quando K. incontra Gerstacker, un vetturino a lui già noto, che vuole offrirgli un lavoro.

Il Castello, come pochi altri classici della letteratura del Novecento ha dato il via a una pluralità di interpretazioni e studi; la certezza è che non vi è un significato univoco: l’autore praghese con espedienti bizzarri costringe chi pensa di aver trovato il senso del suo romanzo, a cambiare strada per assumere un contegno più possibilista. Ad esempio, quando all’inizio del Capitolo II, K. vede per la prima volta i due aiutanti, gli chiede dove sono gli strumenti, loro rispondono di non averne e di non capirne assolutamente nulla di agrimensura:

“Ma se siete i miei vecchi aiutanti dovete conoscere il mestiere”.

Qui si offende deliberatamente la logica, ma a Kafka interessa lasciare nel dubbio le identità di Arthur e Jeremias e di mettere all’erta gli esegeti troppo raziocinanti. Durante il primo sgradevole incontro con il maestro (Cap. I), questi si meraviglia alla domanda di K.: “Come? Lei non conosce il Conte?”. “Come potrei conoscerlo; abbia riguardo alla presenza di bambini innocenti (in francese)”. Si potrebbe pensare che al Castello si commettano chissà quali turpitudini, ma tutto il decorso posteriore dell’azione contraddice questo sospetto: del Conte non si farà più menzione, i funzionari passano il loro tempo dormendo e seducendo di donne di bassa estrazione. Non si sa nulla della natura del Conte; ma c’è una spia rivelatrice: una donna lacera una lettera e K. durante la notte trascorsa nell’“Albergo dei Signori”, vede nel corridoio, su un carrello, un foglietto strappato da un taccuino, intuisce che potrebbe trattarsi della sua pratica, la carta che suggella il suo destino. Allora l’inserviente distrugge senza un motivo il documento deludendo non solo K. ma anche la curiosità del lettore. La vicenda resta avvolta nel mistero, in un’atmosfera di suspence come nei migliori romanzi polizieschi.

L’azione di svolge nello spazio di una sola settimana, scandita da un tempo talmente lento da sembrare immobile, in un paesaggio gelido, innevato con riferimenti alla vita dell’autore praghese: K. ha scelto di recarsi in un luogo desolato, tetro e squallido: quando Frieda si augura di vivere sotto i cieli mediterranei più tersi, K. risponde con una domanda:

“Che cosa avrebbe potuto attirarmi in questo paese tetro, se non il desiderio di rimanervi?”

Un’autoconfessione rivelatrice del significato implicito del romanzo: in questa dimora inospitale, l’uomo tenta di afferrare la propria personalità contro tutti i decreti di un’autorità che si innalza ad arbitro della sua sorte. Il Conte Westwest e i suoi intermediari impersonano quella gerarchia alla quale è oscuramente demandato di decidere il destino dell’uomo al di sopra del suo arbitrio e delle sue aspirazioni. In questo senso l’inserto di K. che da piccolo sale sull’orlo del muro che circonda il cimitero del villaggio nativo e viene rimproverato dal maestro, allude alla smania di poter gettare uno sguardo esplorativo nel regno della morte, precluso alla comprensione razionale.

Se i personaggi maschili minori sono rappresentati da Kafka in tutta la loro meschinità, le figure femminili rivelano l’abilità kafkiana di un’analisi psicologica rigorosa: Frieda, biondina gracile e scialba assurge al mito della donna mangiatrice di uomini; ella per capriccio abbandona Klamm per K., uno straniero che non le darà nessuna sicurezza.

Nell’atmosfera che avvolge il Castello i rapporti umani sono dominati dall’estraneità e dalla solitudine; il rapporto erotico tra Frieda e K. e tra Olga e i servitori dell’albergo, accentuano invece di eliminare il senso di estraneità e l’indifferenza reciproca; le discussioni non si concludono mai con un dato certo, i confronti si svolgono quasi sempre in ambienti inospitali. All’interno di questa cappa di angoscia l’autore non risparmia momenti di comicità, causati però dalla disparità tra le forze di cui dispone K. e la difficoltà del suo compito.

Kafka si avvale, come ha sempre fatto del resto, di un linguaggio paratattico, semplice, chiaro ed incisivo, a tratti perfino elementare, fatto di parole usuali, lontano sia dal naturalismo che dall’espressionismo. Nella monocromia del suo stile è racchiuso il segreto della sua arte, senza avere la pretesa di tradurre in termini razionali i segni cifrati di una fantasia che Kafka stesso ha confermato di non essere capace di spiegare fino in fondo.

 

Bibliografia: Il Castello, prefazione di R. Fertonani.

About Annalina Grasso

Giornalista, social media manager e blogger campana. Laureata in lettere e filologia, master in arte. Amo il cinema, l'arte, la musica, la letteratura, in particolare quella russa, francese e italiana. Collaboro con L'Identità, exlibris e Sharing TV

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