L’Iliade o il poema della forza è un saggio scritto da Simone Weil fra il 1936 e il 1939: l’attualità e la freschezza delle riflessioni della filosofa francese – che rileggendo l’Iliade mette a nudo l’inesorabile peso con cui la forza schiaccia sia vinti che vincitori – costituiscono un sano esercizio intellettuale per interpretare quella che sembrerebbe essere una categoria meta-storica che permea il divenire dall’antica Grecia alla contemporaneità. La forza, e la necessaria violenza attuale o potenziale che la accompagna, lasciano a chi ne è momentaneamente in possesso infinita libertà di agire e di muoversi in uno spazio senza costrizioni. Essa elimina necessariamente quell’intervallo di riflessione che interviene fra il pensiero di un’azione e la sua realizzazione: che motivo avrebbe Agamennone di ponderare le conseguenze del sottrarre Briseide ad Achille, sapendo che questi non potrà nulla a riguardo?
Dall’altro lato, chi subisce la forza cessa di essere una persona e, ridotto a cosa, istintivamente “imita il nulla”. Non per insensibilità dunque, Achille scosta re Priamo implorante alle sue ginocchia: il supplicante, al pari del vinto, termina di essere e diviene un oggetto fastidioso da trattare con noncuranza. Non diversa è la situazione dello schiavo, il cui unico spazio di azione emotiva è piangere della propria sventura nei momenti di lutto del padrone. Tuttavia, nella società postmoderna, si compie un ulteriore passo: lo schiavo gioisce, si dispera e cum-patisce delle stesse emozioni del padrone, in una mimesi isterica che si inserisce in un più ampio quadro clinico che ricorda la sindrome di Stoccolma. La legittimazione morale della ricchezza incommensurabile battezza sull’altare dei valori l’incolmabile diseguaglianza, figlia primogenita della violenza economica. La violenza lacera l’anima e abbandona l’uomo ai propri istinti primari: persino Niobe, dopo aver perso dodici figli, fu infine costretta a mangiare. In una realtà che tende alla mercificazione universale, che ha elevato a bisogni vitali ogni tipo di eccesso e di superfluo e dove il desiderio materiale, la competizione, la produzione e il consumo prendono le forme della fame e della sete. L’uomo ha cancellato ogni forma di vita interiore, è vittima di una tanto amara “miseria che lo rende addirittura incapace di sentire la propria miseria”.
“La forza trasforma chiunque da essa venga toccato”. Questa è per Simone Weil l’essenza del contenuto dell’Iliade. Nel poema omerico non si narra tanto l’eroismo nella battaglia o le fantastiche ingerenze degli dei nei casi umani. L‘Iliade è piuttosto il poema della Forza e del potere che essa ha da una parte di portare alla rovina chi la esercita e dall’altra di pietrificare e ridurre a cosa chi la subisce. Allo stesso tempo, nel dispiegarsi tragico della forza e nella dismisura della volontà che l’accompagna, la violenza e la sopraffazione trovano il loro pareggio nella pietà e nell’amore, ma non nel perdono: il greco non conosce infatti questa ambigua categoria propria della cristianità. Ed è grazie a questa cruda verità, in cui l’uomo viene riportato alla sua finitezza, che la grande narrazione fondativa dell’occidente, si mantiene nella luce del mito. L’occhio di Omero guarda e narra con imparzialità quasi divina le violenze e le alterne sventure tanto degli Achei quanto dei Troiani. Lo stesso occhio, attraverso lo sguardo di Simone Weil, osserva, in un processo di attualizzazione del mito, tanto lucido quanto partecipe, l’avvicinarsi della tempesta europea.
Il genio greco dell’Iliade e della tragedia attica, ereditato dal cristianesimo e indagato dalla Weil, è l’espressione di una filosofia dei vinti, che capovolge e mette in dubbio le tradizionali categorie di oppressi ed oppressori. La forza, come scrisse Eraclito, “è padre di tutte le cose, di tutte re” e soggioga inevitabilmente l’anima umana ancorandola alla materia. La vittoria porterà ben vana consolazione ai re achei: Achille morirà in battaglia, Agamennone assassinato dalla moglie, Aiace Telamonio suicida, e Odisseo e Menelao impiegheranno altri dieci anni per tornare in patria. Nessuno è immune ad essa, e l’immenso potere che in un momento conferisce, nell’altro può repentinamente togliere. L’uomo moderno ha tentato, con la tecnologia e il mito del progresso, di emanciparsi dal peso e dall’incombenza di questa sciagura che rende comune e così fragile la propria condizione.
In realtà
chi pensa che Dio stesso, divenuto uomo, non ha potuto sostenere lo sguardo dinanzi al rigore del destino senza tremare d’angoscia, avrebbe dovuto intendere che possono elevarsi in apparenza al di sopra della miseria umana solo gli uomini che mascherano ai propri occhi tale rigore.
L’intellettuale dissidente