L’ultima notte di quattro condannati a morte nel periodo borbonico, è questo il tema trattato del capolavoro di Gesualdo Bufalino Le menzogne delle notte, Premio Strega 1988.
I primi due capitoli sono introduttivi, e contengono le descrizioni dei protagonisti e del luogo dove si svolgono i fatti, poi vi sono i capitoli con i racconti dei prigionieri che si alternano a capitoli di riflessione; infine l’ultimo contiene il testamento e la lettera del Governatore, in cui si scopre la verità sui prigionieri. Nel romanzo prevale il discorso diretto, specialmente nei capitoli in cui ogni prigioniero racconta la sua storia, proprio perché la racconta, solo a volte interrotto dai commenti di un altro. Le descrizioni di Bufalino sono minuziose. La struttura sintattica semplice e scorrevole.
I quattro condannati scelti dall’autore siciliano sono: il barone Ingafù, il poeta Saglimbeni, il soldato Degli Incerti, lo studente Lucifora. Colpevoli di una congiura ai danni del sovrano, rivelatasi però solo un inutile tentativo: per la tristezza dei congiurati, la strage che ne è seguita non ha scalfito la buona salute del Re.
Una storia che si svolge in uno spazio e in un tempo ristretti all’estremo: nella cella di una prigione di un’isola borbonica e nelle otto ore notturne che li separano dall’esecuzione capitale prevista dopo l’alba. Nell’inviolabile spazio di tredici piedi per diciassette, tuttavia, i congiurati non sono soli: in un angolo, in bella mostra, fa capolino un bussolotto e quattro fogli bianchi, perché più della vita dei prigionieri, e di altri congiurati sparsi chissà dove, al Re interessa conoscere l’identità del loro capo, colui che tra gli affiliati è chiamato “Padreterno” e di lui vorrebbe saperne di più.
Il Governatore della fortezza in persona promette la salvezza ai quattro prigionieri se al termine della notte, dissigillando l’urna, anche un solo foglio sarà stato compilato con il nome del Padreterno. Chiuso in un dilemma ai limiti del sadismo – in quanto nella cella si condividono la presenza e gli sguardi di tutti gli altri – ciascuno ha otto ore per decidere a quale destino andare incontro.
Sembra un thriller psicologico “Le menzogne della notte”. Si tratta, invece, di un’opera letteraria di altissima fattura, prima di tutto in quanto la lingua scelta dallo scrittore siciliano riporta volutamente al tempo in cui la storia si svolge, e lo stile, alto, immaginoso e ricco di metafore, dall’aggettivazione preziosa e a tratti anche troppo ridondante, con esiti barocchi. Bufalino stesso ha motivato le sue scelte stilistiche: «Il registro alto, lo scialo degli aggettivi, l’oltranza dei colori, mi pareva, e pare, il modo che ci resta per contrastare l’ossificazione del mondo in oggetti senza qualità e per restituire ai nostri occhi ormai miopi il sangue forte delle presenze e dei sentimenti.». Un giallo metafisico e morale lo si potrebbe definire, ricco di anatopismi (non adeguamento agli usi e costumi della classe sociale in cui si vive): come in un atlante o annate dalle pagine scambiate, e con la stessa innocenza con cui in certe opere liriche Stoccolma diviene Boston e un re di Francia duca di Mantova, qui date, luoghi e figure giocano sullo sfondo d’uno stravolto Risorgimento.
Le menzogne della notte è un romanzo sontuoso, brillante, profondo, ricco di pensieri che dimostrano ancora una volta il grande impegno culturale da studioso di Bufalino.
Il quinto protagonista dell’intreccio non è il Governatore – che sembra restarne ai margini – bensì Frate Cirillo, soprannome con il quale è conosciuto un temutissimo brigante. Egli ha avuto la triste sorte di essere arrestato più o meno nel periodo in cui la congiura è avvenuta, e dunque, in quanto condannato a morire entro la stessa alba, viene messo nella cella con gli altri quattro che mostrano curiosità per quella personalità ritenuta, fino allora, indecifrabile.
In tale luogo mesto, Frate Cirillo si impone: non sembra lui l’intruso ma quegli altri, cui si rivolge come a dei criminali improvvisati (non hanno ancora la possibilità di salvarsi mentre lui non ha scampo?).
Fino a quell’ora, come tutti i novizi del resto, avevo sentito sulla mia nascita soltanto avari sussurri: ch’era innominabile, spuria; che, non meno degli altri, ero un trovatello, uno storpio d’ambe le gambe, cui difettavano le due forze, paterna e materna, dovute a ogni figlio dell’uomo; ma che in condizione tanto feroce una medicina c’era ed erano loro, i Caracciolini: una centuria di padri al posto dell’unico padre. Da parte sua la Chiesa, nel caldo seno femminilmente accogliendomi, avrebbe abbeverato sino a saziarla la mia derelitta orfanezza. Così ero cresciuto, con un buio e una luce dentro il pensiero: figlio di nessuno, ma promosso figlio di Dio e destinato a servirlo.
Dato per scontato come ognuno sembri comunque deciso ad accettare il proprio destino, è lo stesso brigante a suggerire quale sia il miglior modo di passare la notte: ciascuno avrà la possibilità di raccontare ciò che della propria vita ritiene degno di ricordare, anche se, presumibilmente, nessuno resterà a tramandarlo ad altri. La memoria si perderà.
Cinque capitoli per cinque storie, dunque, e al lettore l’onere di capire in quali di essi, si celino “Le menzogne della notte” e perché. Un atto teatrale unico che sollecita l’acume e la curiosità del lettore, senza fargli mancare colpi di scena, giocando sui contrasti.
Un Decameron costruito su atmosfere irreali, che probabilmente raggiunge uno dei momenti più commoventi quando frate Cirillo invita i condannati a trascorrere le ultime ore raccontando il loro momento di massima felicità: “Quando in vita furono veramente felici?”. Una narrazione nella narrazione dunque che si avvierà alla conclusione che dà ancora una volta prova della sagacia e dell’estro di Gesualdo Bufalino, scrittore mai troppo celebrato.