«Appresi dal giornale la notizia che l’elefante era scomparso dal suo capannone in città». Questo è l’incipit de “L’elefante scomparso” un racconto breve, in bilico tra sogno e realtà,dello scrittore giapponese Haruki Murakami (Kyōto 1949) voce eminente del panorama letterario giapponese e mondiale, e autore del capolavoro “L’uccello che girava le viti del mondo”.
Attraverso una scrittura densa che segue le iperboli interiori di un anonimo protagonista, Murakami ci racconta la storia di un vecchio elefante che è scappato col suo guardiano.
L’elefante è fuggito via dal capannone senza lasciare tracce, nessun segno di manomissione dell’anello di ferro che lo immobilizza, nessuna manomissione ai cancelli, alle serrature. Tutto in ordine, tutto in regola come se ogni cosa fosse come era sempre stata. Il protagonista ci rivela quasi subito il suo interesse per la questione dell’elefante; e ci informa che precedentemente aveva perfino assistito al dibattito in assemblea comunale per decidere come e dove bisognava tenere e occuparsi dell’elefante. Una successione dei fatti misteriosa, che incuriosisce e che allo stesso tempo confonde e ci fa interrogare. Cosa accade dunque, quando per un attimo, l’elefante diventa protagonista nella vita del protagonista? Lo destabilizza, riesce a fargli perdere l’equilibrio.
C’è una lunga tradizione sulla presenza degli animali nei racconti, è un tema mondiale, presente nelle letterature di tutti i tempi. Dagli animali di Esopo a quelli dei fratelli Grimm, da Kafka a Landolfi, da Borges a Bulgakov. In questo racconto l’animale sconvolge, in maniera insolita, il territorio del protagonista. L’uomo e l’animale non si scontrano: non c’è nessuno sforzo dell’uomo nel voler umanizzare l’animale, non c’è nessuna voglia dell’uomo di esibire la propria superiorità, non c’è un momento in cui l’animale si fa portatore di uno specifico senso o significato universale. Semplicemente i due si incontrano, l’uno di fronte all’altro, un incontro dove entrambi, allo stesso modo, sono uno e altro. Simbolo strettamente personale del protagonista l’animale puro, indecifrabile agisce tutta la sua alterità. L’uomo osserva, osserva semplicemente; ma nell’osservare la sua consapevolezza cambia; forse è proprio l’atto di osservare gli fa credere di acquisire nuova consapevolezza e allora inciampa nella crisi e irrimediabilmente qualcosa muta.
La sua visione del mondo, cioè dell’elefante e del guardiano, si annulla per ricomporsi in modo del tutto nuovo; si instilla nell’anonimo protagonista del racconto l’incapacità di accettare che le sue priorità sono cambiate e che le cose per le quali prima sentiva di voler agire, sono le cose per cui non vale più la pena di agire. Eppure non accetta tutto questo e, caparbiamente continua a fare ciò che aveva sempre fatto senza però riuscire a capire e a spiegarsi perché, in alcuni momenti, il desiderio di fare si perde e si spegne. Ma ancora non importa, lui fa ciò che il mondo vuole e dà al mondo ciò che il mondo chiede. Va avanti, cercando di dimenticare quella assurda storia. Nonostante questo c’è sempre un momento in cui gli ritorna alla mente che «sui giornali non compaiono quasi più articoli sull’elefante, che l’erba che ricopriva lo spiazzo è ormai secca e che l’elefante e il suo guardiano sono scomparsi, e non torneranno mai più».
I racconti di Murakami lascia un senso di incompiutezza, a tratti è anche cupo, ma colpisce il lettore per la sua bizzarria e surrealismo.