Lettere dal fronte alla famiglia, 1915-1918 è una raccolta di epistole spedite durante la Grande guerra dal giovane soldato di fanteria Ernst Jünger ai suoi familiari. Il carteggio contiene inoltre alcune lettere di risposta, tra le quali spiccano quelle del fratello e del padre di Jünger. Il testo, presentato da Heimo Schwilk e tradotto da Francesca Sassi, è uscito in Italia nel 2017 per i tipi della LEG e contribuisce, più di altri documenti del tempo, a fornire una descrizione realistica della situazione vissuta dai militi allorquando il conflitto si trasformava, a causa della tecnica e della connessa volontà di potenza, in un’immensa e titanica guerra di materiali.
Prima del conflitto il giovane Jünger aveva mostrato tutta la sua insofferenza verso la comprimente società borghese: era un cattivo e indomabile studente che aveva aderito al gruppo del Wandervogel e che, attratto dall’avventura, era fuggito da casa per entrare in Algeria nella Legione Straniera francese, dalla quale avrebbe poi disertato con l’intenzione di raggiungere l’Africa centrale. Sarebbe poi riuscito a rientrare in Germania senza conseguenze per sé e per la sua futura carriera militare soltanto grazie all’influente padre.
Ernst Jünger: un eroe di guerra pluridecorato, vezzeggiato anche da Hitler
Quando scoppia il conflitto il ribelle decide di arruolarsi come volontario presso la caserma di Hannover. Nel mentre, prima di partire col 73° reggimento dei fucilieri della stessa città, consegue la maturità straordinaria che gli consente di non frequentare per intero l’ultimo anno scolastico. Come osserva Schwilk nella suggestiva introduzione, a questo punto il giovane Jünger appare come uno studentello fallito – ma, di lì a poco, sarebbe diventato, per la felicità dell’ambizioso padre e di tutta la famiglia, un eroe di guerra pluridecorato, un idolo vezzeggiato dai vari circoli della destra radicale e, a dispetto della sua proverbiale indipendenza intellettuale e politica, anche dal nazionalsocialismo e dal suo carismatico leader Adolf Hitler.
Sin dalle prime lettere Jünger evita ogni forma di autocommiserazione e si concentra su aspetti essenziali chiedendo ricorrentemente tabacco, calze, camicie, sigarette, alcol, cioccolata, salumi, libri e riviste. L’aspetto che contribuisce a edificare il mito di un individuo differenziato in piedi sulle macerie è però certamente l’integra freddezza con la quale un giovanissimo uomo esperisce la guerra. Descrivendo i primi episodi di combattimento annota: anche le urla dei colpiti, il sangue e il cervello della guardia appiccicato al portone del castello, li ho osservati a lungo e con calma, per poi asserire: il fuoco delle granate è davvero molto interessante. E forse solo a chi non conosce il futuro Jünger può risultare strano che dopo simili cronache lo scrittore riporti – senza alcuno stacco – l’affresco del paesaggio: c’è bel tempo, i ciliegi sono tutti in fiore.
Nel 1917, quando è già diventato un combattente esperto e apprezzato, scrive del colpo da maestro col quale ha freddato un soldato inglese da una distanza di almeno 600 m:
ho mirato, ho fatto una correzione di un cm (non mi è mai capitato di avere così nitidamente un uomo nel mirino) e ho premuto il grilletto.
Il primo grado di istruzione è un ammaestramento al vedere le cose punto per punto
Jünger non si cura delle sorti del soldato ucciso che, a causa della sua divisa color kaki, spirando si fonde con la terra. Il giovane si esercita già da queste lettere nella difficile arte della descrizione. E talvolta si ha l’impressione che non importi cosa si osservi, ma come si osservi: dall’osservazione avalutativa all’improvviso – come fosse un’illuminazione – la penna scolpisce nel foglio la paradossale, pre-umana, verità. Difatti, asserirà il filosofo anni dopo Il cuore avventuroso, il primo grado di istruzione è un ammaestramento al vedere le cose punto per punto nonché un ripetuto ritornare dall’astratto al concreto stando attenti a non arenarsi in oggetti di puro pensiero e di mero sentimento. D’altra parte, a descrivere con precisione le cose Jünger impara sin da bambino col suo fratello minore Friedrich Georg col quale condivide lo studio accurato degli insetti, passione che la guerra, lungi dall’attenuare, sembra invece alimentare. Sono quindi vari gli accenni alla entomologia, allo studio dei coleotteri e in generale alle scienze – per esempio alla zoologia. Il ragazzo, interessato anche ai fossili incastonati nella pietra calcarea delle trincee, ama passeggiare sul fondale di mari scomparsi rimanendone affascinato come davanti a un rebus.
Oltre a questi impercettibili ma fondanti rimandi, l’epistolario è ricco di informazioni circa le letture del primissimo Jünger: riviste specialistiche come Hann e Anzeiger, L’Orlando furioso di Ariosto, L’altra parte di Kubin, Il circolo Pickwick di Dickens, il De bello gallico e, notizia ricca di significato, i tre libri che la Föster-Nietzsche ha scritto sul fratello. Dalle lettere di Friedrich George Jünger – colme di sincero affetto e dense di osservazioni sulle poesie che Ernst scriveva in quel tempo – apprendiamo che la famiglia aveva una vastissima biblioteca all’interno della quale comparivano i classici della cultura e della poesia tedesca e varie opere di storia e di geografia. Non a caso Ernst Jünger ritiene che una raccolta di viaggi di esplorazione sia una delle cose più preziose che si possano possedere poiché la conoscenza del mondo che tramite queste riusciremmo a raggiungere è simile a un fiore che si schiude petalo dopo petalo.
In qualche lettera il soldato si lamenta del fatto che a ricevere le promozioni siano soprattutto quelli che in battaglia si tengono in disparte e critica i figli degli ufficiali con una gran faccia tosta, poco denaro e una cultura minima. L’ambiente negativo sarebbe frutto del nepotismo mentre il cameratismo di queste teste di rapa si ridurrebbe al bere del vino insieme, starsene seduti vicino in mensa e a spararle grosse. Agli imboscati da retrovie – camerieri personali e pecoroni consenzienti – Jünger contrappone se stesso augurandosi di avere uno scontro aperto prima che la guerra finisca o, una volta divenuto esperto, di tornare a combattere poiché stare lontano dal fronte non è onorevole.
La consapevolezza del proprio ruolo
Il milite – che è cosciente come in guerra si possa emergere veramente soltanto facendo la guerra e che giudica quale aspetto più odioso del conflitto i reumatismi derivati dal freddo – per essere felice ha bisogno di sentire di nuovo l’odore della polvere da sparo. L’indole per la guerra va di pari passo con la consapevolezza del proprio ruolo: egli è fatto per impartire ordini e, già nel 1915, scrive che tutti saprebbero di avere davanti un militare con una certa anzianità, uno che può anche comandare. E se quando si passa davanti a cadaveri senza sepoltura o ci si ritrova a fare la guardia accanto a una gamba che sbuca dalla terra si spera nella pace, si preferisce di gran lunga un nuovo assalto alla guerra da talpe con le sue faticacce.
Nonostante le medaglie e gli onori, Jünger vorrebbe sperimentare anche un’altra avventura entrando in aviazione, ma il pragmatico padre lo ostacolerà – non si coglie se soltanto a parole – scrivendo che con gli aerei si corrono più rischi e che, soprattutto, in guerra non si deve correggere troppo il proprio destino, altrimenti di solito si finisce male. D’altro canto, prosegue Georg Ernst Jünger appalesando la sua volontà di vedere il figlio avanzare nell’esercito, come pilota di aerei si possono abbattere 20 persone senza ricevere l’Ordine di Hohenzollern che, nella posizione in cui si trova il giovane Jünger nel 1917, per il padre non può sfuggirgli. A mio parere – conclude il capofamiglia – fai meglio a restare nella tua attuale truppa, dove ora ti conoscono bene e puoi fare carriera più facilmente che non dovendo creare nuovi rapporti da zero.
Il futuro sismografo, che trascorre il tempo con l’amato cane da pastore Luxie, è già sintonizzato sul piano in cui la storia trapassa nella metastoria:
Luxie resta con me nel rifugio. Durante i bombardamenti striscia nell’angolo più lontano e profondo. Forse anche noi qui nelle nostre tane viviamo in modo più istintivo di quanto immaginiamo, un po’ come le formiche.
Un istinto innato che precede quello animalesco permette a Jünger di rappresentare la forma del tempo e di intuire, partendo dal particolare, il suo invisibile spirito, la forma di vita prevalente. Si tratta di quei rari momenti in cui l’Anarca ha modo di coltivare la solitudine, momenti in cui è colto da una strana sensazione che forse – scrive – si potrebbe definire persino nostalgia. Sono ore di totale abbandono alle quali segue di nuovo l’infernale traffico di transito che regna nelle stazioni delle retrovie, mulini in cui l’umano che è in noi finisce macinato. Così, dal centro della battaglia sino alle retrovie si propaga una nuova Gestalt che già in quegli anni e sempre di più fagocita l’intera società inquadrandola in metallici termitai e polverizzando la oramai flebile linea tra soldato e Operaio – come se si fosse nella macina di un mulino automatico e l’umano, distillandosi, desse luogo al sovraumano o, come osserverà Evola, talvolta al sotto-umano.
Sconfessando ogni buonismo e ogni facile pacifismo il futuro scrittore del discusso libro La pace (1945), da un lato nel 1916 ammette che la guerra si stia facendo sempre più irragionevole, dall’altra è certo che l’essenziale sia che alla fine la Germania ostenti la sua superiorità con la vittoria. E in occasione del tentativo di pace presentato da Germania e Austria agli avversari il 2 dicembre 1916, commenta:
Per quanto mi riguarda, non credo a nessuna pace che non sia stata decisa dalla fame o dalla forza delle armi.
Riportando il suo desiderio di passare all’aviazione, Jünger esplicita la sua inclinazione alla libertà e alla indipendenza di pensiero e di azione: l’aviazione da caccia ha i suoi vantaggi, in particolare quando, come me, non si ha affatto intenzione di rinunciare alla libertà né al proprio dovere militare. Una libertà che, spiegherà egregiamente in Der Arbeiter, non è dunque una vacua e romantica fuga dalla durezza della realtà quanto piuttosto una volontà di accettare il proprio fato coniugando la stessa libertà con la necessità, con una marziale forma di autodisciplina. D’altronde – continua – una delle mie massime è che la libertà si mostra sempre bendisposta nei nostri confronti finché accettiamo che la morte sia il terzo della compagnia. Una volontà di libertà che contempla come suo esito estremo – e caro agli dèi – la prematura perdita dell’individualità o, addirittura, come verga Oscar Wilde, il suicidio – il migliore addio che si possa dare alla società.
Anche quando si felicita dell’acquisto da parte del padre di alcune ampie terre nei pressi di Rehburg, Jünger preconizza in modo sibillino alcune tematiche sviscerate nella successiva produzione: la terra va oltre le fiamme e la guerra. Difficile non percepire l’assonanza con i temi trattati anni dopo dall’amico Carl Schmitt e dallo stesso Jünger che, in opere come Al muro del tempo o Maxima-minima, sarà appassionato studioso dei Titani e che con Mircea Eliade dirigerà la rivisita Antaios – dedicata non a caso ad Anteo, il potente dio tellurico. Riflessioni simili le troviamo nella lettera a Friedrich Georg del luglio 1918. Jünger racconta come la calma del riposo sia spesso violata dalle esplosioni:
la terra comincia a sgretolarsi e le travi a ondeggiare. Poi mi sveglio e avverto una sensazione di avvolgimento con un retrogusto di calore, come un tempo, quando durante un temporale si stava rannicchiati nel letto. Tra l’altro non avrebbe alcun senso restare svegli, perché finché di quegli aggeggi si sente il rumore, vuol dire che non sono pericolosi e non si percepisce più il colpo andato a segno. La paura è nell’illusione.
Per un soldato – e per un uomo di un certo tipo – la paura è solo un’ombra, una parvenza irreale. Se un tempo l’autore sentiva il dolore causato da un luogo in cui non si può rimanere a lungo, alla fine della guerra sembra avvezzo a cambiare posto essendo il luogo definitivo, il luogo dei luoghi, solo la morte – quasi cercata, agognata e sfidata in battaglia. Sin da ora lo stile dell’autore si ramifica in un paradosso: il cuore è come cristallizzato e da un segreto territorio dello spirito emerge al di fuori una siderale freddezza: di recente ho trovato nella latrina le ossa di una mano e ho avuto l’elegante idea di usare un dito per costruirmi un bocchino per sigaro
Lettere dal fronte: pagine d’acciaio che fotografano senza paura e con una poesia che cancella la poesia, la trincea, la morte, l’orrore
Uno degli episodi raccontati nelle lettere – che poi avrà un riscontro letterario nel romanzo di guerra Le tempeste d’acciaio – è il salvataggio del fratello rimasto ferito nella battaglia delle Fiandre del 1917 e fatto trasportare dal comandante di compagnia Ernst Jünger in un rifugio della sanità. Lo scrittore, anche in questo caso, riporta l’accaduto senza cedere in modo eccessivo all’autotrionfalismo. D’altra parte, per un soldato che sarà ferito 14 volte e che riceverà sia la Croce di ferro che la prestigiosa croix Pour le Mérite, l’eroismo e l’abnegazione appaiono come una consuetudinaria forma di azione, come un abito che scolpisce la volontà e forgia integralmente l’individuo.
Non solo lo scrittore evita il tipico – e spesso giustificato – vittimismo che si è soliti registrare nelle lettere dei soldati alla famiglia, ma in alcuni casi si lascia andare anche all’ironia come in occasione dell’incontro col suo poco amato professore di liceo, anch’egli divenuto soldato e costretto a stringere la mano al giovane da pari a pari (tempora mutantur!) o quando, nel 1918, domanda al fratello di scegliergli una fidanzata adatta munita di stanza visto che – scrive dall’ospedale militare – con questo buco nei polmoni, devo fare attenzione alle attività che richiedono un certo consumo di fiato.
Lettere dal fronte si avvicina più all’uomo Ernst Jünger che allo scrittore, più all’avventuriero che al pensatore nonché, via via, più al guerriero che al futuro morfologo e veggente. Eppure, tra le righe si sviluppa con elegante discrezione la cifra dell’aristocratico stile che esploderà nella sua algida grazia già nei Diari e nei romanzi di guerra. Queste pagine d’acciaio – come quelle di Ernst von Salomon sugli irriducibili combattenti dei Freikorps – fotografano senza paura e con una poesia che cancella la poesia, la trincea, la morte, l’orrore, l’ebbrezza e il ferro e rendono conto dello spirito di uomini senza vincoli, i quali, tagliando ogni ponte con l’affettato mondo della buona società, hanno lottato per far trionfare – sentenzia il proscritto – il rango sulla felicità, la sostanza sulle falsificazioni. Così, quando il libro finisce e un manto di solare freddezza cala sul lettore, ritorna, come dinamite che frantuma le rassicurazioni di ogni tempo, il motto dell’Arbeiter:
meglio essere un delinquente che un borghese.