Scrivere del Libro dell’inquietudine (1982) che è stato definita a ragione “il più bel diario del secolo” non è facile proprio per la singolarità stilistica del grande poeta e prosatore Fernando Pessoa. Pessoa, il cui cognome in italiano significa persona, nacque a Lisbona nel 1888 e lì morì nel 1935. Passò la giovinezza in Sudafrica, a Durban, perché il suo patrigno era console del Portogallo e rientrò a Lisbona nel 1905 dove lavorò come impiegato in una ditta di import-export in forza della sua ottima conoscenza dell’ inglese appreso in Sudafrica.
Che cos’ è il il Libro dell’ Inquietudine? Si può dire che è un’ opera aperta, in itinere, che secondo le intenzioni dell’ autore, non avrebbe dovuto essere conclusa. Ancora in questi ultimi anni è oggetto di studio, di ricerca, concentrandosi su quello che è definito il “Baule” cioè tutta la mole degli scritti finora ritrovata. La particolarità di questo diario è la presenza degli Eteronimi, ossia personaggi altri non pseudonomi dell’autore bensì dotati di nome, cognome, con vita propria, autonomi. Ad esempio i più noti sono tre, dato che se ne contano circa una settantina: Alberto Caero, Riccardo Reis, Alvaro de Campos, il quarto è Bernardo Soares che è un semieteronimo in quanto è quello più vicino a Pessoa, la sua proiezione.
Pessoa è l’autore del ‘ 900 che più di tutti ha frantumato l’unità del soggetto. Bernardo Soares, come detto, è un personaggio fittizio, un contabile come appunto Pessoa, un suo doppio, parzialmente eteronimo. Qual è quindi l’ origine di questi personaggi altri? Perché l’ esigenza di moltiplicare il proprio io? In una lettera ad un amico Pessoa scrive:
“L’origine dei miei eteronimi è il tratto di isteria che esiste in me. Non so se sono proprio un isterico o un istero-nevrastenico. Propendo per questa seconda ipotesi perché in me ci sono fenomeni di abulia. Come che sia, l’ origine mentale dei miei eteronimi sta nella mia tendenza organica e costante alla spersonalizzazione e alla simulazione. Essi esplodono verso l’ interno e io li vivo da solo con me stesso”.
Ciascuno dei personaggi di Pessoa vive a sua volta come una privazione, una mancanza. Careiro ha una salute precaria e scarsa istruzione e scrive il portoghese peggio di Pessoa, mentre Reis lo scrive meglio di lui e tende ad un eccessivo purismo. Soares è un Pessoa con poco raziocinio e affettività. Questa aspetto significa che l’ortonimo Pessoa ha un’ incapacità ad esprimersi compiutamente in tutte le possibilità e quindi deve creare figure fittizie, finzioni. In questo senso celebri sono i versi tratti da Autopsicografia:
“Il poeta è un fingitore/ Finge così completamente/ che arriva a fingere che è dolore/ il dolore che davvero sente”. Tutto ciò porta a una sorta di “ Male” cioè il “ Desassossego” ossia una perdita, una privazione, mancanza di sossego, di quiete, tranquillità. Ancora: “ Il mio carattere è tale che detesto il principio e la fine delle cose chè sono punti definiti. Mi sconvolge l’ idea che si trovi una soluzione ai problemi della scienza, della filosofia..”. Arriviamo al punto nodale che peraltro fin qui si è cercato di esplicitare e cioè che lo scrittore in realtà vive davvero fra la vita e la coscienza di essa, fra il reale che guarda e il reale che riproduce nello scrivere. Soares-Pessoa è come in uno stato di veglia, infatti scrive: “ E’ meglio scrivere piuttosto che osare vivere”, ciò vuol dire che la creazione letteraria è uno spazio sì fittizio ma per luivera vita per sfuggire , come scrive, “ all’ incompetenza verso la vita”. Ancora: “ Rifiuto la vita reale come una condanna, rifiuto il sogno come una liberazione ignobile. Ma vivo la parte più sordida e più quotidiana della vita reale e vivo la parte più intensa e più costante del sogno”. Dice : “ Ho creato in me varie personalità. Creo costantemente personalità. Ogni mio sogno è incarnato in un’ altra persona che inizia a sognarlo e non sono io”.
Pessoa ama con lo sguardo, non con la fantasia. “ Io vivo di pura visione” dice, il che non vuol dire essere visionari ma saper osservare, cogliere i dettagli.
“Mio Dio, mio Dio, a chi assisto? Quanti sono io? Chi è io? Per creare mi sono distrutto; mi sono così esteriorizzato dentro di me che dentro di me non esisto se non esteriormente. Sono la scena viva sulla quale passano svariati attori che recitano svariati drammi”.
I pensieri racchiusi ne “Il libro dell’inquietudine” sono pura poesia. Versi malinconici intrisi di sentimento che affasciano e al contempo disturbano il lettore. Le emozioni si dimostrano nate dall’intelletto e non dall’esperienza di vita. Da ciò quest’ultima è percepita quale falsa, perduta, affetta dalla noia; anche il dolore che viene provato lo è. Perché il novellatore è fingitore e per convivere con il proprio malessere deve autoconvincersi che anche questo assunto non è verità.
Le riflessioni di Pessoa contengono una possibilità religiosa e la certezza della pochezza della natura umana:
“Ho considerato che Dio, pur essendo improbabile, potrebbe anche esistere e che, pertanto, si poteva adorare; ma che l’Umanità, essendo una mera idea biologica, e non significando altro che la specie animale umana, non era degna di adorazione più di qualsiasi altra specie animale. Questo culto dell’Umanità, con i suoi riti di Libertà e di Uguaglianza, mi è sempre parso una reviviscenza di culti antichi, in cui degli animali erano come dèi, o gli dèi avevano teste di animali.”
La stanchezza e lo sconforto di Pessoa non sono depressione, ma rimpianto, nostalgia e consapevolezza di essere diverso dagli altri e forse di non essere amato nel suo essere diverso, alla ricerca dell’equilibrio perduto.
Pasquale Ciaccio