“La sirena” è un racconto fantastico scritto tra il 1956 e il 1957. Il titolo “Lighea” è stato suggerito dalla moglie di Tomasi di Lampedusa, Alexandra Wolff Stomersee detta Licy e riprende il nome del personaggio mitologico coprotagonista. Il lungo racconto è formato in realtà da due racconti inseriti l’uno nell’altro: un racconto cornice e un racconto quadro. Quello di secondo livello, dove appunto compare Lighea, ha carattere fantastico: descrive l’amore tra un uomo e una sirena. Questo “secondo racconto” ha toni fortemente sensuali ed erotici; già nella scelta della sirena si esplica un forte richiamo erotico. Lighea è il simbolo dell’erotismo supremo, creatura del mare, il mare principio e fine, immagine di nascita e morte, di voce e di silenzio. La storia di Lighea comincia con l’evocazione della grande calura estiva che lascia cadere e languire la storia nelle grinfie di demoni meridiani. La canicola estiva avvolge tra densi fumi i pensieri e sembra suggerire le visioni del senatore Rosario La Ciura.
La sirena è una protagonista ambigua perché reca i segni dell’indistinzione all’origine della vita; è ambigua per la sua doppia identità di donna-pesce. Nella sua metà femminile è legata alla terra, a sensazioni che sembrano essere quasi umane, nell’altra metà è invece indissolubilmente legata al mare. Una dualità insuperabile, risorsa e condanna al tempo stesso. È dunque una figura che si pone “pericolosamente” al centro né donna né bestia. Bestia sicuramente «ma nel medesimo tempo era anche un’Immortale». La sintesi descrittiva forse più semplice che il senatore tenta ma decisamente la più difficile da comprendere. Lighea creatura spirituale ed istintiva al tempo stesso, seduttrice e anche madre saggia, donna. La sua ferinità è la sua forza, è proprio da qui che si muove tutta la sua sensualità. Al centro di questo intreccio l’incontro tra l’uomo e la bestia, la loro congiunzione, quell’inimmaginabile che ha il sapore dei miti antichi, di quei miti greci a cui il senatore La Ciura tiene tanto.
E chissà se non è proprio la sua divorante e smisurata passione per la grecità che gli consente di incontrare una sirena. Da quel primo incontro non c’è più limite al sentire, alle emozioni; non c’è più riflessione, tutto svanisce; e nel linguaggio della sirena, in quelle parole greche così suadenti e colme delle spume del mare e difficili da comprendere si nascondeva «il maggior sortilegio» l’incanto. Dall’incanto della voce e del suono sparisce la difficoltà e l’insormontabilità dei due mondi dei protagonisti è superata. Il canto della sirena tradizionalmente pericoloso si ammansisce e diventa linguaggio comprensibile. Il senatore La Ciura trascorre un’estate intera in compagnia della splendida Lighea volgendo ogni suo interesse alla conoscenza e al piacere. Una conoscenza e un piacere che non riescono ad essere appagati perché alla fine l’uomo rimane soggiogato dalla “bestia” ; e il sortilegio di quella creatura marina e terrestre si compirà molti anni dopo quando il senatore stanco o semplicemente pronto deciderà di raggiungere in mare la sua antica amante.
Il linguaggio adoperato da Tomasi di Lampedusa è molto vivace e realistico in quanto caratterizzato da termini dialettali, specchio di un contesto sociale-politico deludente, soprattutto in Sicilia e, che coincide con la fine del neorealismo.