Dopo il Metello, era giustamente atteso il seguito di quella trilogia, Una storia italiana, annunciata da Vasco Pratolini quando fu dato alle stampe il primo volume. Alle opere precedenti, di fronte al romanzo-fiume Lo scialo, la critica ha richiamato l’autore alla sua naturale misura narrativa rispetto allo scialare di questo romanzo. Eugenio Montale ha sostenuto che Lo scialo è un romanzo vano più che crudele. La vita infatti, secondo il poeta è frugata da Pratolini con il microscopio in ogni sua fibrilla e non senza qualche delectatio morosa sui temi azzardati, Ma bisogna sottolineare senza psicologismi astratti o psicoanalitici che l’adesione alla vita come realtà, anche se Lo scialo è una cronaca di fatti che corre sul binario di una cronaca esterna, in Pratolini è totale; e se c’è un’ideologia che la sottende, non le fa tuttavia da guida anche se talvolta la piega dei sentimenti, più che dei fatti, è interpretata secondo quell’ideologia che si sa in lui qual è. Ma questo conta ben poco, anche l’ideologia di Balzac contò poco nella costruzione della Commedia umana.
Quello che conta allora, nello Scialo, è la visione e rappresentazione della Firenze di un ventennio, o poco più (1910-1930); e conta come questa visione di avvenimenti pubblici e privati e di figure che, a ogni loro grado, li impersonino, sia rappresentata nei modi dell’arte. Certamente questo è un problema di ogni romanzo, di ogni narrativa, ma in Scialo, senza alcuna possibilità di evasione, non rifugge dalla consueta tecnica del monologo interiore. La trama è quella di una cronaca fiorentina, collegata naturalmente a una più ampia cronaca nazionale di quel ventennio: dire quindi che ad un certo punto ci troveremo come di fronte ai “luoghi deputati” delle sacre rappresentazioni, e cioè la lotta per l’intervento nella guerra 1915-1918, il dopoguerra, le prime violenze fasciste, le rappresaglie squadristiche, l’olio di ricino e altri fatti ancora più gravi e delittuosi che Pratolini non ha giustamente omesso , è come scivolare in un binario risaputo. Che cosa ha dunque inventato Pratolini? Non i fatti pubblici, né il riflesso, più o meno presumibile, di questi fatti in privato, nelle figure che entrano a tramare di se il racconto; Pratolini ha o avrà inventato una serie di sentimenti, affetti, familiari o sociali, connessi a quella risaputa realtà.
Nella vasta ampiezza della trama quindi, il campo di Pratolini risulta necessariamente limitato a trapuntare la trama con “uno scialo di triti fatti”. Questo è il lavoro artigianale dello scrittore toscano. Lo scialo è come se fosse una riprova cronologica delle nostre conoscenze, ad esempio Nella e il suo “sfasciolato” marito e quella Nini’ con il marito Adamo, il dannunzian-fascista Folco Malesci, e il ragazzo velleitario Fernando, riescono a darci di loro non più un’immagine di “cronaca familiare”. Non che questi personaggi debbano essere eroi balzacchiani o stendhaliani, ma nel corso della vicenda, li si vorrebbe uomini, una volta usciti dal tritume dei fatti con una somma e qualità di umanità o inumaità o disumanità dentro che ce li rendesse memorabili. Probabilmente la nostra simpatia andrebbe ai Bigazzi piuttosto che ai Donati, ai Bertini che ai Sangiorgi e magari ai fatti del Pignone, anche se Pratolini non conferisce ai suoi personaggi una statura “umana”, sebbene sappia raccontare molto bene; il suo linguaggio è vivace, ricco, ben rigirato e senza letteratura, mostrando in Lo scialo di essere un solerte e laborioso artigiano delle conterie di Ponte Vecchio.
Bibliografia: G. Titta Rosa, Vita letteraria del Novecento.